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Giornale del Popolo

  Intervista con Jean-François Haas (a cura di Elisabeth Vust)

Lei non ha l'età del giovane debuttante, e il suo primo romanzo, Dans la gueule de la baleine guerre (Seuil, 2007), non corrisponde certo al cliché del libro ispirato dall'autobiografia. Detto questo, che rapporto ha con la storia del suo narratore, soldato tedesco, prigioniero dei russi durante la Seconda Guerra mondiale?

[...] Non è un romanzo dove l'autobiografia pesi molto, in effetti; privilegio, forse, dell'età e di una certa distanza che ho preso da me stesso. Nella mia vita di lettore, non sono mai stato particolarmente attirato dall'autobiografia: Proust mi è essenziale proprio perché il narratore vuole scrivere un libro, è a questo che tende tutta la Recherche [allude ad Alla ricerca del tempo perduto , di Marcel Proust], ed è questo che ne fa un libro incredibilmente aperto a ogni realtà, e non certo un esercizio d'egocentrismo. Un libro deve esistere in sé, indipendentemente dalla biografia del suo autore. [...] Tuttavia, per finire - e non finire mai - con l'autobiografia, devo pur osservare che all'inizio, mentre redigevo, il mio narratore si chiamava semplicemente Joseph (pensavo al personaggio di Kafka); poi è diventato Joseph Heller, finché il racconto non mi ha imposto un secondo nome: Freidemann. Così, un giorno, mi sono accorto che il mio narratore portava le mie stesse iniziali: JFH.

Per arrivare all'essenziale della sua domanda, comunque, devo prima evocare una vecchia esperienza, lo choc che ho vissuto quand'ero giovane, durante un viaggio a Colonia: dappertutto scoprivo mutilati, uomini che soffrivano ancora della guerra, dove erano stati, forse (per alcuni di loro: certamente), dei criminali. Più tardi, tra il 1994 e il 2000, sono stato accompagnato a rendere regolarmente visita a qualcuno, in una casa per anziani, in Germania. Ho avuto l'occasione, così, di legare un po' con un vecchio soldato della Wehrmacht, che aveva lasciato una gamba in Jugoslavia e che non era mai stato, credo, un criminale; leggeva molto - «Darum leb'ich noch», mi diceva - ed era un brontolone prodigiosamente innamorato della vita, o di quella che gli restava da vivere. In questo stesso edificio, ho visto un uomo a cui si dava dell'Herr Doktor, e che passava il suo tempo a percorrere un lungo corridoio, braccio destro teso, ripetendo un “Heil” alternato con delle serie di “Ja... Ja... Ja...”; una sorta di latrato meccanico totalmente sottomesso: si aveva l'impressione che questo fosse tutto quello che restava di lui. Davanti ai residenti di questa casa per anziani che avevano vissuto la guerra, mi sono domandato spesso come fossero potuti rinascere da tutto questo, e, in particolare, per i criminali, dal male che avevano fatto (alla fine degli anni '90, in Germania, un dibattito ha messo in evidenza come dei soldati della Wehrmacht abbiano contribuito ai crimini di guerra e i crimini contro l'umanità sul fronte Est), ma anche, per gli altri, del male che avevano potuto subire sotto il regime nazista e - seppure non ci sia nessuna misura col male assoluto del nazismo (un male che è la sua essenza, che la costituisce) - dagli alleati (bombardamenti, maltrattamenti, umiliazioni, stupri, prigionie in campi sovietici, da cui migliaia, come il mio narratore, sono tornati solo nel 1955...). [...]

Da Caino alle guerre contemporanee, il male abita la storia, e così il vostro romanzo. Un male originale, pronto ad assalire l'uomo alla gola e a trasformarlo in bestia. Il suo narratore, che durante la guerra ha violentato e ucciso, ne ha fatto esperienza diretta...

Mi sembra che, malgrado le terrificanti disfatte umane del XX secolo, viviamo sempre nella credenza più o meno vaga - ed ereditata dal XVIII secolo - che l'uomo è buono. Senza entrare in un dibattito sul peccato originale, mi sembra che la storia riponga questa credenza al museo delle illusioni. Come d'altronde la credenza che l'uomo sia cattivo. Uno degli interrogativi che si pone il mio narratore - e che mi pongo anch'io - è: Cos'è che nell'uomo, o perlomeno in me, è capace di agire contro quello che conosco e riconosco come il bene? Di aderire a un sistema omicida? Di considerare come un bene la negazione dell'altro? A seconda di quello che rispondo, devo riconoscere che il male è in me, aldilà di qualsiasi sistema politico o socio-economico e di ogni educazione? Che, in qualche modo, mi è congenito? Impossibile sviluppare qui una mia riflessione, che, d'altra parte, resta a uno stato di interrogazione.

Il solo antidoto al male sarebbe l'amore, quello redentore di Dio e quello della donna?

L'amore redentore di Dio, sì, è quello che credo. Ma non vorrei imporre questa risposta, in passato si sono volute imporre fin troppe religioni o ideologie. La fede cristiana è la fede in qualcuno, è l'incontro che ha continuamente luogo. Credo sia un cammino che s'offre all'uomo di oggi. Nel cristianesimo, ma già nel giudaismo, ci sono due valori capaci di dare all'uomo un avvenire: l'amore, di cui si parla molto, e il perdono. Amare qualcuno, o perdonarlo, è dargli la possibilità di essere qualcosa di più del male che ha fatto.

Quanto al mio narratore, l'amore di sua moglie gli permette di rinascere. Sono di una generazione che ha ereditato le grandi canzoni d'amore che Jean Ferrat ha ricavato dalle poesie di Aragon. Le ascoltiamo con molta naïveté, ma io continuo a sentirmi abbastanza vicino a due o tre cose che Aragon dice della donna. Penso in particolare ai versi da cui Ferrat ha ripreso Que serais-je sans toi? [ Che sarei senza te? ] Hanno resistito, per me, alla prova della realtà.

Detto questo, credo in modo più generale all'amore del prossimo, di cui l'amore uomo-donna non è che un aspetto.

Dio è libero di perdonare all'uomo i suoi peccati, ma anche di abbandonarlo all'inferno. E l'uomo è libero di dire sì al male?

Nella misura in cui Dio ha impegnato la sua libertà in una storia d'amore con noi, ed è quello che esprime tanto luminosamente il Cantico dei Cantici , non sono sicuro che sia tenuto la libertà d'abbandonare l'uomo all'inferno. Penso a queste parabole così semplici, così limpide, della pecora smarrita o del figliol prodigo. Ho una fiducia illimitata nel suo perdono.

L'uomo è libero di dire sì al male? Il mio narratore ha un padre pacifista, vittima nel suo psichismo della Prima Guerra mondiale; malgrado l'educazione che dà a suo figlio, però, questo diventa un criminale. Le circostanze rendono possibile questa deriva: il nazismo ha offerto una morale della forza e della razza che faceva un bene del servizio dello Stato razzista e del disprezzo del debole, fino a rendere accettabili i crimini contro l'umanità. Il mio narratore non è una SS, ma un soldato della Wehrmacht. Dal 1933, così come tutti i giovani tedeschi, ha vissuto in un clima di anti-umanità, di negazione dell'altro: la sua coscienza, per finire, ne è stata offuscata e almeno in parte avvelenata. Non possedeva certo una piena libertà di scelta. Ma lui pensa che effettivamente avrebbe potuto rifiutare: certi l'hanno fatto. Io non so se sarei riuscito a farlo nel sistema nazista, penso piuttosto che avrei seguito il gregge, come la maggioranza. Detto questo, la questione supera, qui, il contesto storico. Io sì, credo che l'uomo sia capace di dire no al male. Credo anche che, dopo aver detto di sì, l'uomo possa rimpiangerlo e voler cambiare. [...]

Traduzione: Le Cultur@ctif

 

Page créée le 04.10.07
Dernière mise à jour le 04.10.07

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