Vanni Bianconi ha  esordito come poeta nel 2004, con la raccolta di poesie Faura dei morti (in Poesia contemporanea. Ottavo  quaderno italiano, Milano, Marcos  y Marcos). Qualche giorno fa, invece, a distanza di quattro anni, Bianconi  esce allo scoperto con il suo secondo libro: Ora prima. Sei poesie lunghe,  Bellinzona, Casagrande. Lo dico subito: fin troppo cauto il sottotitolo Sei poesie lunghe, in sospeso tra plaquette e raccolta, ma a modo suo già  significativo dell’atteggiamento mite e mai altisonante dell’autore, che  propone un io o, meglio, alcuni io compassati e quasi sempre destinati  ad accompagnare altre voci, «come un pagliaccio d’entracte». 
                  Così Fabio Pusterla,  nella prefazione a Faura dei morti: «Realtà vastissima, brusio diffuso  in cui tutto sembra votato alla perdita e alla scomparsa, e ogni esistenza pare  oscuramente minacciata. Il disorientamento, l’assenza di una concreta identità  storica, il movimento casuale, il groviglio inestricabile di progetti più o  meno vani e imprevisti, il peso della realtà: ecco lo sfondo da cui nasce  questa scrittura». Riproponiamo questo lucido commento perché, a grandi linee,  resta attualissimo, cominciando con il «disorientamento» prodotto dal titolo, Ora  prima: se “ora” rappresenta come sostantivo la ventiquattresima parte del  giorno e non crea sorprese (“ora prima” sarà il levar del giorno di leopardiana  memoria e richiamerà il Libro delle ore),  come avverbio favorisce un corto circuito temporale passato-presente piuttosto evidente.  Allo stesso modo, voltata una pagina, il titolo della prima sezione è Sempre  presto di mattina, anche incipit del primo testo (col titolo della  poesia Ora, quindi, forma la combinazione ora - sempre - presto - di  mattina). Ed è solo l’inizio di una lunga serie di ambiguità di tempi che  attraverserà l’intera raccolta: «Ricordo come fosse ieri invece / è adesso»,  «un futuro che fa scalo - / il futuro opposto a ogni unico passato / ma a se  stesso spesso uguale», «ieri costretto ogni giorno a essere domani», «l’inizio  che è il riflusso di una fine»; fino all’intervento diretto dell’io lirico,  che ammicca «non piaccio al cameriere a cui rispondo “parto e arrivo”». 
                  Non va molto  diversamente con i luoghi e gli spazi: tanto precisi (Roma, Milano, Patmos,  Città del Messico, Locarno, Pula, Mostar, Sarajevo, Zurigo, ...), quanto fugaci  e in dissolvenza. Come spiega la primissima poesia del libro, «la città si  allunga in ogni altra»: la sua specificità (che è concreta: Locarno, ad  esempio, ha il suo lago) non è mai centrale, ma tassello o motore di un movimento  più ampio, inquieto. Prendiamo la Svizzera di Sono sposato, attorno a  cui orbitano storie dolorose e personaggi drammatici («Da bambino mio zio mi  disse che / se un Dio fosse esistito gli aeroplani / volando alti l’avrebbero  già / colpito, colpito a morte. È morto / veloce: cancro, l’ha colpito a  morte»; «Marina a volte la scopo drogati. / Lei, l’abitudine. Io non ancora /  abituato, o troppo, al matrimonio, / alla sua minima eternità»): essa non è  semplicemente «un paese rosso come / è la speranza», ma è significativamente  «rosso come è / la fottuta speranza, sì, speranza»; più un lamento, dunque, un  grido disperato. 
                  Nel  disordine di tempi e nello slittamento di luoghi, le voci e le figure che  popolano i versi di Vanni Bianconi si muovono pressoché smaniose accanto a una  prima persona (più spesso singolare) destinata al secondo piano, come  anticipato in apertura, destinata - senza, beninteso, alcuna timidezza o  rassegnazione: è solo una questione di gerarchie - a fare da spalla. Talvolta  compaiono dal passato, mischiandosi al presente: «Le mani degli assenti, sudate  di pianto, baciate nel palmo, / in quell’acqua confondono il nome nostro e il  loro». Altre volte sono fantasmi, come in Trent’anni e quattro fantasmi,  dove a un Prologo dedicato alle sostanze che spingono «a cercare le  ombre senza avere / un’ombra propria salda sulla terra» seguono quattro  immagini di donne (o quattro immagini di una sola donna: «Death», suggerirebbe  l’epigrafe di Brodsky) per cui l’io lirico è sempre in posizione  subordinata; fantasmi che, nella Coda, sono occasione ancora una volta  di una riflessione più estesa: «Trent’anni e quattro fantasmi, / più tutti voi  e tutti gli altri inizi / che la lingua ha cercato di arginare / per dire ciò  che siete voi a dire, / dei ritagli di tempo piani e neri / sul bianco della  pagina, figure / ora venute a mancare altrove, / fori da cui, sia il vuoto o  l’invisibile, / rientrare in circolo, o chissà dove». O, ancora, per citare uno  dei personaggi “forti” di Ora prima, il tanto sollecitato Zbigniew,  pensatore schietto («riragiona», tra l’altro, «su tutti gli anni che sono  passati» e «si affatica a dare il senso a un’ora / di adesso o allora») e a  tratti proiezione di un insistente io interrogatore. 
                  Tutto  questo per sottolineare come l’universo di Bianconi sia prima di tutto un  grande moto di inquietudine accompagnato costantemente da uno stato  confusionale in cui i riferimenti più ovvi vengono a mancare, dove le poche  sicurezze svaniscono in una spirale onirica e fantasmatica. Non certo per distogliere  lo sguardo da soggetti impegnativi, però: per assurdo, infatti, questo quadro  precario è anche un osservatorio privilegiato per affrontare temi gravi e  pesanti. Su tutti la guerra e chi l’ha vissuta o si ritrova di fronte  all’assenza, alla sospensione di quello che (non) resta: La città senza assedio del titolo di una delle sei “poesie lunghe”  (che bella l’immagine della Biblioteca Nazionale di Sarajevo ripulita, «polvere  e piume raccolte / negli angoli», e inaccessibile, vuota); vittime e reduci: «quelli  che non sono morti nella guerra / e solo ora tornano a accettare di morire / o  comunque ne rimangono stupiti». 
                  Più in generale, Ora prima è una  raccolta che andrebbe letta e riletta (ma, per un libro di poesie, bisogna  dirlo?), perché la voce di Vanni Bianconi è cresciuta: dopo aver guadagnato  consistenza con Faura dei morti, s’è  fatta più sicura e incisiva, l’enunciato più naturale. I versi scivolano in  forme medio-lunghe (senza fuggire l’endecasillabo) che sembrano fondersi  perfettamente al tono narrativo dominante. Come le rime e il ritmo impeccabile,  quasi da chansonnier, dell’ultima  poesia, che oppone - ma è tregua di un momento, non stonatura, sebbene la  posizione in coda possa stupire - alla realtà di un’umanità che «fiammeggia /  cova e si spegne eternamente» un occhio in cui «la fragilità dell’aria / ride  confusa». Ancora confusione, sì, smarrimento, ma anche un ridere effimero da  cui ripartire. 
                  Yari Bernasconi  
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