Misero padre, né già più padre

"Aspetto la fine senza poter muovere un dito, senza pronunciare un suono". Un uomo morente sdraiato nel letto, i rumori di una palazzina d'intorno: così, come il beckettiano Malone meurt, s'inizia il romanzo d'esordio di Paolo Di Stefano, siracusano trentottenne che ha diretto le pagine culturali del "Corriere del Ticino" dall'86 all'89 e che ora lavora al "Corriere della Sera". Accanto a quel letto siede una donna, una moglie ritornata, che fa frusciare le lettere d'un tempo, apre i cassetti, mormora ricordi. E' un pretesto narrativo per dare spazio ai brani sparsi di una vita sofferta, attraverso le voci di quell'uomo, della donna, attraverso le lettere dei rispettivi genitori, telefonate, suoni, dialoghi. Il tempo dell'attesa della morte si dilata, si gonfia, lascia galleggiare oggetti della mente, sul filo di una serie di percorsi spaziali e temporali che segnano la straziante vicenda esistenziale del moribondo.
Come indicarvela, questa vicenda, senza rompere l'incanto delle linee narrative, che percorrono fughe e ritorni, nel desiderio inesausto di condurre la propria vita nella direzione voluta? Forse partendo dal titolo: "baci da non ripetere", ripreso da un passo dell'ottavo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Sono i baci che Dedalo pone sulle guance del figlio Icaro, prima di librarsi in volo con ali di piume e cera, fuggendo da Creta ("Dedit oscula nato / non iterum repetenda suo", vv. 211-12), commovendosi della fragile tenera fanciullezza destinata a spezzarsi.
Così come il padre di Icaro ("pater infelix, nec iam pater") lo vede precipitare perché, incauto, è volato troppo vicino al sole, il protagonista del romanzo di Di Stefano soffre lo strazio della morte del figlio Claudio, fulminato dalla leucemia a soli cinque anni. La malattia, il distacco, la morte, sono resi dall'autore con una verità straziante, attraverso le rievocazioni di questo padre che cerca con minuzia di oggettivare l'assurdità della vita di un bambino che si spezza (i teneri "baci da non ripetere" che anche lui regala alla cuginetta poco prima di terminare la sua esistenza): annota con minuzia i farmaci, conta le mille ottocento cinquantacinque notti in cui ha riposato, rievoca il suoi centodieci centimentri, i suoi ventun chili.
Se questo motivo dominante del libro è quello che più colpisce per l'intensità dei sentimenti espressi, un altro più importante tema percorre le sue pagine, proponendosi inoltre come suggestivo modello strutturale del romanzo. Il tracciato narrativo procede per linee contrapposte, vettori spazio-temporali mossi da impulsi primari dell'esistenza. Il protagonista è un siciliano, trapiantato in Svizzera, dove si è sposato ed è vissuto sulle rive del Ceresio. In lui, come nella moglie ticinese, agisce contemporaneamente la spinta alla fuga dalla terra natale (per la donna dalla claustrofobia di una famiglia bigotta) e il destino implacabile che lo spinge al ritorno alle radici, alla nostalgia degli archetipi della propria esistenza.
A livello di struttura questo emerge dall'alternarsi della voce del protagonista, della moglie, delle lettere ai e dai genitori in Sicilia, da un continuo passaggio anche di oggetti simbolicamente pregni: olio, ceci, peperoncini che prendono la strada del Nord, soldi che dalla Svizzera vanno ad aiutare i genitori, vanno a saldare le fatture di una "casa per il ritorno" che non sarà mai terminata.
Nel ricordo di lui luci, suoni, colori, odori, si fondono e cantano e scuotono e portano ricordi, con una predilezione retorica per la sinestesia: silenzi salati, blu liquidi. L'immaginario della moglie è invece costruito sull'ordine, sugli abiti ben riposti, sul bianco della neve e di un vestito di prima comunione e sul nero dei monti. Contro il desiderio di fuga, di riscatto, di identità propria, questi richiami ancestrali l'hanno sempre vinta, tanto che il protagonista decide, contro il volere della moglie, di portare la salma di Claudio nel loculo di famiglia.
Ed ecco, l'incomunicabilità tra i due squarcia il velo dell'illusione d'aver vinto le rispettive solitudini: per lei i baci da non ripetere sono quelli umidicci dei vecchi del paese scaracchioso, che trasformano il madore senile delle guance del Dedalo ovidiano nei "baci bagnati" dei "parenti ogni anno sempre più vecchi e malati".
La moglie allora fugge, va lontano, vive di fuga, pur cedendo ogni mercoledì al dovere di telefonare alla madre, senza parlare, solamente ascoltando i suoi reiterati rimproveri, il ghiaccio della sua volontà sulla sua vita. Ritornerà soltanto per accostarsi al letto di morte di lui, per caricarlo sulla macchina e portarlo là dove la terra secca e nera lo accoglierà nel suo grembo ineluttabile.
Dopo le assonanze delle fragili voci di bimbi nella sua precedente raccolta poetica, Paolo di Stefano ci regala con questo primo romanzo una sofferta parabola sui destini dell'uomo che, se molto deve letterariamente alla sua sicilianità (si potrebbe fare il nome del Vittorini di Conversazione in Sicilia, ma non solo), riesce a compiere il miracoloso travaso che fa della forma contenuto e del contenuto forma, con una pregnanza narrativa e drammatica che rendono il suo libro appassionante e commovente nel profondo.

Pierre Lepori
© Le Culturactif Suisse