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Giornalismo e poesia?

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Un autore ticinese da riscoprire…

Giovanni Orelli - a ragione - parla di un "torso"; e noi aggiungeremo un "carso". Si può introdurre così, puntellando il realismo con inquietudini tematiche e linguistiche - come un destino che rode la pietra dal di dentro - l'inedito di Tarcisio Poma, che vede la luce a un anno dalla scomparsa del latinista e scrittore ticinese.

Ancor più dell'Orelli è il nostro stupore per questo prosciugatissimo racconto, sortito dai tipi di Pedrazzini in Locarno, nella collana del Pardo nata dalla passione di Carlo Castelli e che aprì i suoi battenti nel 1980 proprio con La sagra di san Lorenzo, il romanzo d'esordio del Poma (composto a partire dal 1943).

Fu latinista di vaglia e traduttore (tanto da vincere un premio Schiller per le sue versioni virgiliane), Tarcisio Poma e ne guadagnò una sorvegliatezza di stile per cui le sue "vacanze naturalistiche" (Orelli), pur d'ambiente paesano o valligiano, difficilmente incapparono nella leziosità bucolica, pur sempre in agguato. La mimesi linguistica, spesso anche un reale piacere nella manipolazione del dialetto che si spingeva sino alla sperimentazione e all'astrazione, ne fecero non già un neo-realista, quanto piuttosto un verista che si trattiene su quella soglia del "semi-reale" segnalata da Leo Spitzer per il narrare verghiano.

Fontalta, quest'inedito, porta all'estremo - e, diremmo, livido - sbriciolamento le coordinate del bozzetto paesano, attaccandolo su due fronti, quello della lingua e quello del mito. E il risultato, sorprendente, ci piace definirlo cinematografico: non già per ubbie d'esser poco moderni (Poma tanto non concede), ma per l'improvviso sorgere di un paesaggio visivo che riporta alla mente le immagini di un capolavoro del cinema muto svizzero: Rapt di Dimitri Kirsanoff (1929), che trasse da La séparation des races di Ramuz uno spartito visivo e sonoro d'incommensurabile intensità. La lotta tra due villaggi rivali dell'Oberland bernese, lì pure, assunse nitore metafisico per la ricchezza e verginità di uno sguardo filmico volutamente ispirato a Vertov e prefigurante le simbologie eisezteiniane.

Il montaggio, cinematograficamente, è lingua (dunque langue, con finalità estetiche): stacchi o dissolvenze sono punteggiatura. E per capire la sfida del periodare di Poma è bene anche affidarsi alla punteggiatura, pungente, secca, pronta a trarre dallo schioccare aspro degli epigrammi di Marziale ogni succo retorico che sgretoli il terreno calcaroso del racconto d'amore. D'un amore così puro e volutamente idealizzato da non entrare neanche nei conti di un destino che è lì pronto a confermare il primato della "roba" (termine verghiano, ma anche di un racconto contenuto ne La pioggia di sassi, altro libro di Poma).

E la lingua è icona (in senso pearciano) di questo destino proprio nel suo stagliarsi descrittiva e senza verbalizzazione: tempi e luoghi, in questo romanzo breve, emergono e "stanno", sulla traccia di certi incipit di Plinio Martini ("Una casa soffocata dalle altre, la più povera del villaggio (...)" cui fa eco, in Poma: "Non molte le case, strette le une alle altre in un abbraccio che dura da secoli").

Di più: il paesaggio narrativo è inghiacciato nelle forme infinitive dei verbi, negli "ablativi assoluti", in qualche vezzoso presente continuo. Quasi di controcanto, a dar l'abbrivio al racconto ci pensano i sostantivi, attraverso il soccorso dell'anadiplosi, il rincorrersi dei termini dialettali, quasi astratti nella loro formulazione italiana (dai "peduli" al "carlone" sino a espressioni che hanno un cipiglio barocco: "il cielo di un nuvolo scuro", ma che hanno ascendenze dialettali [nivul]).

E' un'estrema rarefazione di stampo verista, che par richiamare certi contorcimenti, certi "sbalzelloni" pirandelliani: si veda il classico "piena anche per le olive quell'annata" che apre La Giara, ma anche esordi nell'ordine di "silenzio di specchio, odore di cera, fresca lindura di tendine di mussola alle finestre: da undici anni così, la casa della signora Léuca" (Pena di vivere così).

Pirandello non è certo un ricordo lontano, per Poma, dacché l'espediente con cui allontana il protagonista Mattia dall'amata Luigia (non abbastanza libera per amarlo, ma non così "zinfrina" da illuderlo come altre figure femminili pomiane) è proprio una falsa morte, ricercata con sconsolato abbandono come un doppione del Mattia Pascal pirandelliano: "morto anche tu" mormorava il Mattia "morto per tutti!". E provava non uno sconforto, ma il vago piacere di una risurrezione che gli nasceva nuovo nell'anima" in Poma; "Ero morto, ero morto: (...) libero! libero! libero!" in Pirandello.

A spingere il nostro personaggio all'annullamento non è certo, come nel girgentino, un'asfittica situazione familiare, quanto un ben radicale "sentimento del contrario" che si esprime appunto nel versante che abbiamo definito "carsico" del racconto di Poma.

E allora ci sono luoghi - gorghi di senso - e personaggi - gorghi di inadeguatezza - a disegnare il profilo simbolico di un male di vivere di lucidità conturbante. Tantopiù perché affidato a una completa materialità. L'acqua, che appare come neve e come grandine, s'impasta col terreno, quel terreno gretoso, sassoso del canalone che i contrabbandieri paesani vogliono piegare a una minuziosa scalinatura, la cui costruzione segue il corso della narrazione: ecco la fanghiglia, infida, infausta, ecco il pollino. L'acqua melmosa, così come la definiva Gaston Bachelard nella sua ricognizione della simbologia degli elementi, estremo cedimento all'angoscia, allo spavento del Nulla, tantopiù rivelato a chi con gli elementi, con l'alpe la terra e la campagna, ha convivenza di secoli.

Ei personaggi che vi s'ingorgano cedono al richiamo del mysterium, danzano sulla corda tesa di un animo perso in follia, di una testa in cui "balla la furlana". Lo sghignazzo quasi isterico di una signora con la falce ci appare, in Poma, come nello stracciuto incedere di una maschera di Ensor, mentre l'orizzonte terge in metafisico spavento la lucida aria che i temporali hanno portato. L'Alma che coi capelli sciolti - quasi vediamo le vesti a un tratto enfiate come per l'Ofelia scespiriana - proprio ad apertura di Fontalta ha scelto il lavacro del pollino (da cui pure Mattia saprà uscire vivo e partente); la stria Lia che abbaia alla luna e che s'impicca per essere seppellita nella "brutta neve". La tragedia del vivere si scioglie come un urlo - catalogato per folle - nel paesaggio di Munch. Ma la prosa, secca, senza sbavature, prosegue claustrofobica a disegnarci i mattoni del villaggio, a ricordarci una fatica quotidiana, gli usignuoli a dispetto del "gracchiare catarroso dei corvi" apparecchiano "il concerto serale".

Una perla nera, questo piccolo romanzo di Tarcisio Poma, lasciato all'ammirazione dei posteri.

Tarcisio Poma, Fontalta, Locarno, Pedrazzini, 1996, pp. 123.

 

Page créée le 09.10.01
Dernière mise à jour le 09.10.01

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