Guglielmo Volonterio, Il delitto di essere qui, Enrico Filippini e la Svizzera, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 198.

"Svizzera italiana: emigrazione e letteratura. (..) Si può dire di Enrico Filippini (1932-88) che dai vent'ani in su "vive" tra Milano e Roma una vita tutta italiana". Tutto qui: neppure che nacque a Locarno e crebbe in Valle Maggia, che fu sì italianissimo e partecipe dell'Avanguardia letteraria di quel paese, ma pure narratore che del suo déracinement pur fece un tema importante e portante; che nello sperimentare non dimenticò il suo dialetto, la sua valle, che, soprattutto, come grandissimo "divulgatore" di cultura si occupò di perorare in Italia le traduzioni di Frisch e Dürrenmatt, che presentò dalle illustri pagine de "La Repubblica" gli stessi autori, come pure fece da ponte per le polemiche di Ziegler; che parlò del proprio paese, dei suoi letterati, dei rischi idilliaci e delle possibilità di far letteratura in una "situazione di eccezione" come l'a-storica e pencolante provincia nostra.

Ma "visse una vita tutta italiana" ci dice - e poi tace - il Dizionario delle letterature svizzere: quello "identitario" del Settecentesimo, secondo gli intenti del curatore, Pierre-Olivier Walzer per cui "gli scrittori sono l'onore del paese (…) l'occasione di prendere coscienza della nostra identità elvetica". D'altronde, in una nazione in cui la "Fondazione per la cultura" - benemerita finché si vuole, ma pur sempre "istituzionale" - si chiama Pro Helvetia, il parametro di elveticità (?) può ben farla da padrone… e un articolo polemico sulla letteratura nostra, che la definisca "ein totes Feld", può ben suonare alla dirigente (ma scrittrice) della fondazione summentovata "un articolo assassino". E dunque Filippini non esiste.

"Ma in Svizzera non si è mai emarginati completamente: (…) Si parcheggia il personaggio scomodo in aree perimetrali, che gli consentano di esprimere parzialmente le sue qualità, agendo nella misura della imposta integrazione. Simultaneamente si favorisce la mediocrità intellettuale". Son moniti durissimi: vengono dal libro che Guglielmo Volonterio - forse uno dei pochi nostri critici cinematografici e intellettuale tormentato e raffinato - ha dedicato proprio a Enrico Filippini. Che invece scelse di scappare del tutto da un paese giudicato "claustrofobico", "uggioso", "tedioso", quasi a ruota dell'apoftegma di Dürrenmatt per cui "se la Svizzera è limitata (…) ciò non vuol dire che sia limitato anch'io".

E il grande pregio del saggio di Volonterio è di non nascondersi che dietro il rifiuto di Filippini del/dal suo paese, si cela un groviglio di problemi aperti, una ferita d'incomprensione tra gli intellettuali e la Svizzera, forse quasi l'impossibilità di essere veramente intellettuali - e creatori - in un'Helvetia che volentieri col denaro giustizia il senso di libertà (o lo assopisce). Si vedano le osservazioni di Volonterio a proposito del concetto di "mentalità svizzera di fondo", proposta come metro selettivo dalla Prima legge federale del cinema del 1962 (pp. 95-96). E di veda, soprattutto, il racconto, dettagliatamente documentato, dell'esclusione di Filippini dall'insegnamento alla cattedra di Letteratura e lingua italiana del Politecnico federale di Zurigo (1970): fan sbiancare, non tanto gli articoli polemici che punteggiarono quella vicenda (conoscendo la stampa ticinese, donde vien che cosa è talvolta dubbio), quanto gli estratti del verbale delle riunioni della Commissione incaricata dell'esame dei candidati: che sembra gioiosamente veleggiare tra allergie politiche personali e sostegni spassionatamente di campanile. Mentre Filippini commenta rattristato di sentirsi confrontato con un atteggiamento "che ai miei occhi è maccartista".

Ma se il saggio di Volonterio è politico e polemico nei confronti delle istituzioni (culturali) elvetiche, se si nutre pure di una sovrapposizione con il proprio vissuto e con il vissuto di molti intellettuali in-contentabili, il suo sforzo è di superare questa prima visione per compiere un successivo passo.

Glielo consente Filippini medesimo, con la sua passione, conoscenza (e traduzione) di un grande (ed ostico) come Edmund Husserl e della fenomenologia in generale. E qui Volonterio compie qualche errore di impostazione: perché cerca di far collimare metodo e struttura del suo saggio, con risultati non sempre congrui.
E' però seria e bella la lettura del coraggio "filosofico" di Filippini: alla ricerca della datità e di un'esperienza dell'alterità - vissuta con intenso travaglio personale - che superi da un lato il tema idealistico del dissolvimento dell'io empirico, dall'altro l'appaiamento analogico husserliano che "comporta un'armonia di monadi"; i continui riferimenti, in questo contesto, all'"abitabilità del tempo" - che per Filippini è data dalla presenza della donna amata (nell'Ultimo viaggio, uscito postumo nel 1988) - richiamano perentoriamente la risposta heideggeriana all'esclusione della temporalità operata da Husserl: e pure Volonterio sceglie una strada sua personale, prendendo principalmente Sartre "quale interprete del processo di alterità di Filippini". Ci propone un percorso, commosso e partecipe, con il viaggio di Filippini verso le radici (il ritorno alla propria valle) in compagnia di una donna, Elena, "eletta a rivelarlo".

Purtroppo, però, Volonterio non è soltanto ostico nelle formulazioni - il che non è un male, convinti con Pasolini che "nella ricerca della verità chi si esprime ha il diritto di passare attraverso le più appassionate complicazioni" - ma anche decisamente disordinato, sia nell'esposto che nei riferimenti. Le note - bibliografiche o esplicative - appaiono e scompaiono, togliendoci la libertà degli approfondimenti (perché, magari a beneficio anche del lettore italiano, non dà referenze precise su Lingua matrigna di Sandro Bianconi, tra quei libri che, per Filippini, "con pazienza e sobrietà scavano un po' sotto quella quieta benché eccezionale ovvietà che per un ticinese significa essere ticinese"? Perché cita "quotidiani ticinesi" di cui non fa il nome?); le ricostruzioni biografiche si arenano in disquisizioni filosofiche talvolta ripetitive; soprattutto: il gioco di citazioni da scritti filippiniani perde per strada virgolette e precisione (arrivando a parafrasi che sono copiatura, o ad intieri brani citati due volte, per poi ricomparire una terza in appendice); ed infine suona un po' qual controsenso la presentazione, in coda al libro, di alcuni limpidi articoli di Enrico Filippini su "la Repubblica", accostati ad alcuni frammenti di "scrittura d'avanguardia" (resi mezzi da uno sforzo interpretativo ancor più "d'avanguardia").

Ed è un peccato, certo, perché tale arruffatezza non giova a un volume che tanto dice su Filippini, sul rapporto intellettuali-Svizzera, sull'ormai tramontata illusione di un "altrove" dove il déracinement possa riposare in un Senso.

Alla fine il libro di Volonterio andrà dunque tenuto, insieme a La verità del gatto di Filippini (vero livre de chevet d'ogni giornalista culturale), sul comodino per lungo tempo: in modo da ricucirne le provocazioni in uno stimolante pamphlet di disturbo - quindi di necessità - intellettuale. Sicuri che ogni libro "di verità" - come questo è - è soprattutto un monito contro la smemoratezza. "Viviamo in un'immensa smemoratezza" dichiarò Max Frisch a Filippini "e nella smemoratezza non c'è letteratura, a parte poi che nella smemoratezza può sempre risorgere il fascismo".

Pierre Lepori
© Popolo e Libertà
23.1.1997