Sandro Bianconi - L'italiano in Svizzera
L'ultimo numero dell'Archivio Storico Ticinese (rivista fondata nel 1960 da Virgilio Gilardoni) pubblica gli atti del convegno "Geografia e storia dell'italiano in Svizzera", svoltosi lo scorso novembre a Bellinzona. Da sempre attento ai temi dello scambio culturale e linguistico all'interno (e non soltanto) della Confederazione, il cultur@ctif.ch ha approfittato dell'occasione per invitare nelle sue pagine Sandro Bianconi: linguista di lungo corso (alcuni dei suoi saggi sono vere e proprie pietre miliari della riflessione - non soltanto linguistica - sull'identità svizzero italiana, Cfr. Bibliografia), Bianconi è anche un intellettuale a tutto tondo, dallo sguardo acuto e dagli interessi molteplici (diresse, durante un triennio "infuocato", il Festival del Film di Locarno, insieme a Freddy Buache, nel 1966-70), i cui interventi, sempre suffragati dal sapere dell'uomo di scienza coscienzioso, hanno puntualmente accompagnato la riflessione intellettuale elvetica. Ha diretto l'Osservatorio linguistico della Svizzera italiana (http://www.ti.ch/decs/dc/olsi/) fino al 1998.
Intervista con Sandro Bianconi (Pierre Lepori)
Partirei da alcuni dati statistici, perché da essi prende le mosse anche il suo intervento, oggi pubblicato nell'AST: "La situazione attuale: tomografia dell'italiano in Svizzera". Mettendo a confronto i dati del Censimento Federale del 2000 e dei precedenti (1980 e 1990), lei rileva che il numero di persone che hanno dichiarato nel nostro paese - al di fuori della Svizzera italiana - l'italiano loro lingua principale (o materna) è diminuito da 387'421 alle attuali 204'231: una "caduta" di 183'000 persone, pari al 47,3%. Dal punto di vista strettamente linguistico, come si piega questa recessione massiccia? In che contesto socio-politico si inserisce, quale rapporto ha con l'evoluzione generale delle lingue, anche al di là del nostro paese?
La spiegazione va cercata nel processo di assimilazione culturale e linguistica degli immigrati italofoni in Svizzera, nella loro progressiva e, a medio termine, totale identificazione nella cultura e nella lingua di accoglienza; un fenomeno che ha le sue radici nel rifiuto e nella paura nei confronti della diversità, e nella conseguente messa in atto di una politica sistematica di assimilazione e cancellazione delle specificità, invece che di integrazione nella cultura e nella lingua d'accoglienza. Il fenomeno è tipicamente svizzero, ma si verifica come prassi più semplice e meno onerosa da tutti i punti di vista, anche in altri stati europei. Questa tendenza, strettamente legata ai fenomeni della globalizzazione, accentua e amplifica il fenomeno di per sé normale della scomparsa degli idiomi più deboli e marginali.
Questo decremento dell'italiano non è tuttavia così monolitico come può sembrare ad un occhio precipitoso. Lei annota: "sono 404'516 le persone che nel 200 hanno dichiarato di parlare italiano: quasi il doppio, quindi, di coloro che l'hanno indicato come lingua principale" mentre "222'723 persone di 141 nazionalità diverse hanno dichiarato di parlare italiano sul posto di lavoro: questa è la dimostrazione del ruolo comunicativo importante che l'italiano svolge (
) come lingua veicolare nell'ambiente di lavoro". Un italiano come lingua non-materna, dunque svincolato da una precisa idea di identità linguistica, può essere valorizzato e promosso, in questo senso? Ed è possibile intersecare i due piani (uso linguistico "forte" e "debole", se vogliamo)?
Questi dati mi sembrano altamente significativi per diverse ragioni: in primo luogo illustrano la distanza abissale tra i comportamenti linguistici reali della popolazione e i modelli teorici dell'ideologia politica e culturale ufficiale ancorata ai quattro territori linguistici omogenei. In altre parole i dati sull'italiano parlato svelano una consistente realtà sommersa: le dinamiche della effettiva comunicazione sociolinguistica, i parlanti reali e i loro comportamenti quotidiani. In quest'ottica l'italiano assume, a mio avviso, un ruolo culturale e sociale di alta rilevanza come strumento di socializzazione e comunicazione tra pari. Purtroppo tutto ciò avviene in ambiti poco apprezzati e con protagonisti anonimi, che l'ufficialità ignora e considera di scarso o nullo prestigio o interesse socioeconomico. Al polo opposto, lo stesso fenomeno avviene con l'inglese, lingua non-materna sempre più diffusa anche in Svizzera, che gode di ben altro prestigio negli ambienti economici e finanziari. Paradossalmente si può tuttavia osservare che dal punto di vista qualitativo l'italiano,"lingua franca" dei lavoratori immigrati, e l'inglese basico oggi in circolazione non sono poi così distanti. Decisamente diversi sono invece la potenza, la qualità e il prestigio del loro background.
Potrebbe tracciare, per converso, una diagnosi sulla salute dell'italiano all'interno del territorio cantonale (Cantone Ticino e Grigioni Italiano)? Venticinque anni fa lei ha firmò un saggio celebre (che si è trasformato, per molti ticinesi, in un vero e proprio apoftegma): "Italiano, lingua matrigna", per spiegare il ruolo fondamentale del dialetto nel Ticino dell'immediato dopoguerra. Questa visione è stata da lei stesso corretta e poi superata negli studi successivi, seguendo l'evoluzione linguistica con ampie e documentate indagini sul territorio. Esiste ancora oggi una "varietà regionale" d'italiano, con una sua componente identitaria forte? Ovvero: si parla ancora (se mai lo si è fatto) un italiano "caratteristico" nella Svizzera di lingua italiana?
Lo stato di salute dell'italiano nel Ticino e nel Grigioni italiano non è dissimile da quello di qualsiasi altra regione dell'Italia settentrionale; i problemi sono legati sia alle carenze di singoli (o categorie di) parlanti sia, ma soprattutto a realtà d'ordine socioculturale e comunicativo di fondo che oggi caratterizzano tutte le società avanzate occidentali. Vorrei precisare che il titolo esatto del mio studio è "Lingua matrigna. Italiano e dialetto nella Svizzera italiana", una formulazione metaforica volutamente polisemica e aperta, che permetteva al lettore di considerare come "matrigni" sia l'italiano sia il dialetto. La specificità regionale dell'italiano ticinese, paragonato alle altre varietà d'italiano settentrionale, sussiste tuttora, anche se con manifestazioni chiaramente attenuate rispetto a trent'anni fa: da un lato, per la maggioranza dei parlanti l'italiano ha perso il carattere di lingua matrigna ed è effettivamente diventato lingua materna, anche per le trasformazioni socio-economico-culturali di questi ultimi decenni e per il ruolo sempre più invasivo dei modelli linguistici massmediologici, diffusi e affermatisi in Italia come in Ticino. Dall'altro, anche nel sistema linguistico si è imposta una chiara tendenza globalizzante, che ha visto l'attenuazione dei fenomeni marcati in senso regionale o locale. Quindi, se si escludono alcuni tratti fonologici di fondo di carattere pansettentrionale, a livello lessicale si può constatare il permanere di una dimensione regionale: non pochi ticinesi usano vocaboli che non sanno riconoscere come elvetismi e che ritengono regolarmente italiani.
Il ruolo del dialetto nelle regioni italofone della Svizzera è visto dai romandi e dagli Svizzero tedeschi con un misto di stupore e di ignoranza; raramente i nostri compatrioti hanno un'idea chiara del ruolo attuale e dell'evoluzione storica del dialetto in Svizzera Italiana, anche perché molto diversa è la situazione del francese e del tedesco (e forse falsa un poco la loro visione la pubblicazione tardiva del Vocabolario dei Dialetti della Svizzera Italiana, con un lavoro ormai secolare). Come si può spiegare a uno "Svizzero tipo" (che ovviamente non esiste!) la dimensione e l'evoluzione del dialetto, nonché le sue prospettive (tutt'altro che rosee) per il futuro?
Non bisogna dimenticare il dato di partenza, ovvero il peso e il ruolo del dialetto nelle tre regioni: non esiste più in Romandia, è egemone nella parte tedesca e ormai secondario in quella italiana. Romandi e alemanni hanno una percezione necessariamente diversa del rapporto lingua-dialetto nel Ticino, e ciò indipendentemente dal VSI di cui s'ignora l'esistenza. Lo "svizzero tipo" potrebbe forse comprendere le considerazioni seguenti: la storia del dialetto riflette puntualmente le trasformazioni socio-economico-culturali di questo ultimo secolo, nel corso del quale il Ticino ha perso il carattere di mondo rurale per diventare realtà del terziario avanzato. Fino alla seconda guerra mondiale i dialetti locali erano i mezzi conoscitivi, espressivi e comunicativi funzionali della realtà artigianale e agricola tradizionale. Tuttavia avevano sempre convissuto con l'italiano, la lingua alta della scrittura e dell'ufficialità, in un rapporto segnato nei secoli dalla diglossia. La brusca scomparsa della civiltà rurale, quindi di utensili, oggetti, attività, ha inevitabilmente cancellato anche le parole, le espressioni, i verbi che li definivano. La nuova cultura urbana del terziario aveva e ha il suo codice funzionale nell'italiano, e i dialetti si sono svuotati della loro specificità originale e del loro ruolo, diventando semplici strumenti comunicativi privati e simulacri di un mondo ormai cancellato. Il dialetto ha assunto un valore e una funzione ignorati fino a quel momento, divenendo la componente centrale di un'identità ideale che si presumeva autentica: un'operazione chiaramente localistica, regressiva e nostalgica sfociata, tra l'altro, nel rozzo populismo leghista. E in "Lingua matrigna" il fenomeno era stato esplicitamente annunciato.
Torniamo all'italiano in Svizzera, questa volta dal lato della "sua difesa". Nel suo articolo lei ha parole estremamente dure sulla "minoranza stessa" e individua una delle cause del "deterioramento della posizione dell'italiano in Svizzera (
) nella sua debolezza e inconsistenza politica e culturale, nella scarsa credibilità al livello federale, proprio per l'assenza pressoché totale di progettualità seria e coraggiosa": ma spetterebbe alla minoranza difendersi (come talvolta giustamente fa, anche se in modi velatamente demagogici) o non è piuttosto il sistema linguistico nazionale nel suo complesso (in un contesto di rapida evoluzione internazionale, se pensiamo all'inglese) a dover ripensare a fondo (e urgentemente) i suoi principi di funzionamento?
Credo che la nostra responsabilità più grave consista nel non avere quasi mai saputo superare la dimensione cantonalistica. Non siamo stati in grado di affermare esplicitamente e con vigore l'aspetto fondante dell'italianità come componente essenziale dello stato federale. Politici e uomini di cultura ticinesi non hanno colto questa occasione al momento opportuno, quando la maggioranza alemannica si dimostrava sensibile a questo tema e la presenza di italofoni immigrati Oltregottardo era massiccia. Ora la situazione è del tutto mutata, la solidarietà confederale è un bel ricordo e gli italofoni sono ormai passati allo schwytzertütsch. Inoltre ben poco è cambiato nell'impostazione della politica linguistica della Confederazione rispetto al passato e io credo che il destino dell'italiano sia segnato: questa lingua è sempre più relegata nei confini del suo territorio e va assumendo una vaga connotazione folkloristico-sentimentale.
Mi piacerebbe spingerla un poco sul terreno storico: perché la questione della lingua ha nel nostro paese una lunga vicenda, estremamente istruttiva. In particolare - pur non potendo contare la Confederazione su una "lingua-nazione" - esiste uno stretto legame tra identità e lingua, per quanto concerne le singole regioni. Questo ha portato, nel tempo, a una forte affermazione del principio di "territorialità" delle lingue. La formulazione dell' "identità svizzero italiana" si sviluppa proprio in questa direzione . Volendo riassumere per sommi capi la storia - di cui lei dettaglia gli episodi nel suo Lingue di frontiera - potremmo partire dalla fine dell'Ottocento: l'apertura della Galleria del Gottardo (1882) - con l'arrivo di personale ferroviario, ma anche di scuole, di giornali, in un secondo tempo di artisti attirati dalla Sonnenstube - ha creato il primo profondo disagio, poi rafforzatosi con le fondamentali discussioni sul ruolo del Ticino in una Svizzera sempre più isolata in mezzo all'Europa dei totalitarismi. Dalla paura dell'inforestimento della SI nasce anche la sua identità
Fino a che punto questa storia (di doppia opposizione: rispetto al vicino italiano e rispetto all'Oltregottardo) sottende ancora la cultura svizzero italiana, fornisce in modo carsico i germi di una resistenza al dialogo interfederale (quando non interculturale tout-court)?
L'identità della Svizzera italiana, e del Ticino in particolare, è nata reattivamente e problematicamente nell'Ottocento come bisogno di differenziazione e separazione dal Regno d'Italia e dalla Svizzera tedesca. Fino a quel momento i ticinesi non avevano avuto problemi identitari, si erano sentiti aproblematicamente di cultura italiana e sudditi svizzeri. Sono dell'opinione che il condizionamento identitario ottocentesco sia presente ancora oggi, anche se con modalità e intensità diverse, proprio come alibi dal quale il potere in genere può trarre vantaggio. Infatti nel corso del XX secolo la classe dirigente ticinese non ha saputo elaborare né proporre un'alternativa efficace . Operazione ardua, certo, se non addirittura impossibile per una minoranza che usciva da secoli di povertà materiale: in un contesto segnato dalla corsa generalizzata e sfrenata al profitto, che lo stato del paesaggio urbanistico e architettonico attuale rispecchia fedelmente (emblematico da questo punto di vista l'orrendo mastodontico casinò di Campione), l'operazione più facile e redditizia è stata quella di enfatizzare demagogicamente un'identità idealizzata. Per questa ragione non sopporto più le stracche improduttive rimasticature dei luoghi comuni sull'identità comunitaria: viviamo oggi in un luogo che non è né può essere diverso da qualsiasi altro luogo del continente, un paese "senza" come gli altri, siamo individui esattamente come tutti gli altri individui nostri contemporanei.
I due grandi principi di "territorialità" e "libertà linguistica" sono stati al centro del lungo, ma in fin dei conti "abortito", dibattito sull'"Articolo delle lingue" (art. 116 della nostra carta fondamentale, oggi articolo 20): come lei fa notare, furono proprio i romandi e gli svizzero italiani i più strenui difensori di una chiusura "territoriale" delle lingue, che sembra oggi aver giocato possentemente a sfavore del ruolo e dell'importanza dell'italiano in Svizzera. Si è trattato solo di un episodio di miopia della classe politica o di un più profondo problema di cultura e opinione pubblica?
E' un tipico problema svizzero di fondo legato a un passato plurisecolare, che condiziona tuttora buona parte della cultura nazionale nel suo insieme, della classe politica e dell'opinione pubblica. Sono le manifestazioni del conflitto tra vecchio e nuovo, tradizione e innovazione, demagogia populistica e principio di realtà, paura del cambiamento e coraggio di affrontarlo, chiusura intollerante e apertura solidale. Da questo punto di vista continuare a parlare di territorialità e frontiere linguistiche nella dimensione cantonalistica, quando conosciamo la realtà multietnica, multiculturale e multilingue della Svizzera d'oggi, significa essere fuori della storia, negare le trasformazioni radicali della realtà nazionale. Due esempi probanti: nel 2004 in votazione popolare si rifiuta la proposta governativa di agevolare la naturalizzazione degli immigrati di seconda e terza generazione, nel settembre 2006 siamo chiamati a votare su un allucinante progetto di legge sull'asilo e l'immigrazione .
Sempre a proposito dell'opinione pubblica: dopo gli allarmismi sullo stato di salute dell'italiano in Svizzera, le polemiche sulla traduzione italiana del libro dell'Expo02, sulla chiusura delle cattedre di italiano, ecc., varie manifestazioni (tra cui il convegno di Bellinzona) hanno offerto in pubblico dibattito il complesso problema delle lingue minoritarie nel nostro paese: non si può dire però che il pubblico, a questo tipo di incontri, accorra a frotte! Per quale motivo la questione linguistica, nel nostro paese, è vissuta come "poco sexy" (come direbbero i francofoni), o comunque non centrale nel dibattito pubblico (a meno che non trovi ingiusta questa osservazione)?
Il pragmatismo e l'utilitarismo sono i motori delle scelte e dei comportamenti linguistici individuali e collettivi oggi. Questo spiega perché le due lingue che contano sul mercato svizzero sono lo svizzero tedesco, la lingua della maggioranza, e l'inglese, quella del potere economico. Le altre, cioè il francese, ma soprattutto l'italiano e il romancio, sono quantité négligeable. Lo confermano le ultime proposte, i dibattiti e le scelte nel campo dell'insegnamento delle lingue.
Non vorremmo qui fermare la nostra attenzione solo sull'italiano: si tratta di un problema di minoranza, che va collegato certamente anche al più generale discorso sull'evoluzione delle minoranze nel nostro paese: è possibile difendere l'italiano in un discorso più generale che faccia dialogare "minoranza" e "maggioranza"? Come è possibile inserirlo in questo contesto più vasto, senza fargli perdere le caratteristiche (o i privilegi?) sinora statuiti dall'assetto costituzionale elvetico?
Ritengo che un vero, realistico ed efficace dibattito sul rapporto maggioranza - minoranza non sia praticabile né immaginabile fino a quando il federalismo svizzero sarà fondato sul cantonalismo, i suoi valori centrali saranno il territorio e le frontiere e non si vorrà mettere in discussione l'autonomia cantonale in materia scolastica. Perché sarebbe necessario e anche urgente incentrare l'attenzione sull'individuo con i suoi diritti culturali, tra i quali prioritario quello del mantenimento e della promozione della propria cultura e lingua d'origine. Ma ciò non è possibile, proprio perché i cantoni riconoscono soltanto la propria lingua ufficiale e non si curano delle lingue altre e minoritarie, quantunque nazionali come l'italiano, portate dagli allievi figli d'immigrati. Ogni discorso serio dovrebbe partire da questa premessa , ovvero dal rispetto e dalla tutela della diversità, che invece il cantonalismo svizzero esclude a priori. In queste condizioni l'italiano è il classico vaso di coccio tra vasi di ferro: il tedesco, il francese, l'inglese.
Allarghiamo un poco l'orizzonte: la Svizzera Italiana ha subito nel dopoguerra una rapida e definiva trasformazione che (checché ne dicano i nostalgici) l'ha fatta uscire da una millenaria storia rurale per trasformarla in una regione dominata dal terziario e dall'urbanizzazione demografica. Si ha l'impressione - guardando alla vicenda linguistica - che sia mancata un'evoluzione intellettuale e culturale che accompagnasse questo cammino verso "la modernità". Esiste oggi una cultura svizzero italiana forte, creativa, volta al futuro? E se sì, in quali modi e quali orizzonti si esprime: nell'università (ricordiamo che l'USI ha aperto le sue porte e si è rapidamente sviluppata solo da una decina d'anni in Ticino), in una nuova classe intellettuale, in una coscienza collettiva consapevole?
Non avverto una "coscienza collettiva consapevole": è innegabile che in Ticino vivano numerose persone di cultura, operatori che lavorano seriamente per creare occasioni culturali non banali né provinciali. Non pochi sono i gruppi di ricerca e di lavoro che producono risultati apprezzati oltre i confini cantonali, eccellenti scrittori e saggisti ticinesi si sono affermati all'estero. Ma accanto a queste realtà qualitativamente apprezzabili ne esistono numerose altre nelle quali più che della sostanza ci si preoccupa delle apparenze, della cosiddetta visibilità e del prestigio ufficiale e pubblico. Un atteggiamento in sé legittimo, se non fosse per l'impressione fondata che l'attenzione e la generosità sovvenzionatrice dell'autorità politica privilegino queste ultime a discapito delle prime. Due esempi illuminanti: per il prossimo centenario fransciniano è progettata una mostra celebrativa che agli enti pubblici costerà circa 1 milione di franchi. Il fatto non meriterebbe di essere rilevato se, al polo opposto, non ci fosse lo scandalo della rivista "Archivio storico ticinese", curata nella forma del volontariato da un gruppo di studiosi, una presenza pluridecennale puntuale, seria e stimolante nel dibattito culturale e scientifico del cantone, non solo, ma un concreto contributo alla promozione dell'italianità: ebbene, il cantone ha recentemente ridotto il sussidio annuale alla pubblicazione da trentamila franchi, importo certamente non stratosferico, a ventimila franchi. I due esempi lasciano intravedere situazioni culturali di fondo decisamente problematiche e inaccettabili che fanno disperare delle sorti magnifiche e progressive di questo paese.
E' difficile capire quale possa essere, nel caso specifico delle lingue, l'intervento della "classe" intellettuale ticinese; se i politici hanno mezzi d'azione parlamentari (e non soltanto), come a suo modo di vedere dovrebbe agire la "cultura" svizzero italiana? Detta in modo un po' brutale: visto da chi da anni risiede al di fuori del Cantone, si ha talvolta l'impressione di un certo vittimismo, di un'azione limitata ad "appelli" e "lettere aperte" (che, come nel caso recente dell'attacco alle Giornate Letterarie di Soletta e all'Istituto Letterario Svizzero, sembrano spesso ignorare la realtà complessa in cui le varie istituzioni si trovano a lavorare), mentre la presenza degli intellettuali ticinesi sulla scena federale è limitata. Mi sembra una domanda fondamentale, rivolta a un intellettuale da sempre "engagé", qual è il ruolo dell'intellettuale nello spazio pubblico, soprattutto quando è l'espressione di una minoranza culturale, quale deve essere la sua "azione" (forse deve limitarsi solo all'analisi profonda, articolata, intelligente, dell'esistente, perché il dibattito non dipenda solo da partigianerie e semplificazioni)?
Da molti anni non credo più alla mitica figura anni 50 dell'intellettuale di tipo sartiano, autore di progetti d'intervento e trasformazione della realtà politica e sociale . Più convincente mi sembra la figura foucaultiana dell'uomo di cultura che lavora in modo serio e credibile e fornisce al contesto sociale idee e proposte operative concrete. È ciò che ho tentato di fare nel mio campo d'attività, offrendo i risultati delle mie ricerche alla conoscenza e alla riflessione dei politici e dei concittadini. L'intento era quello di fornire documentazione e suggerimenti prima che si prendessero decisioni nel settore della politica linguistica, decisioni che coinvolgevano in primo luogo la lingua italiana nel Ticino e in Svizzera. Ma i risultati sono stati deludenti e si sono tradotti in una serie di interventi che si segnalavano per la disinformazione, la presunzione e l'arroganza dei nostri rappresentanti. La mia esperienza a livello federale non è certo stata più felice: il rapporto Saladin sullo stato del quadrilinguismo in Svizzera, un lavoro scientificamente serio ed esauriente, una base solida per un dibattito approfondito in parlamento, è stato ignorato e cestinato in nome dei due principi medievali della territorialità e dei confini linguistici cari ai nostri politici. E' la conferma evidente che in queste condizioni non è lecito farsi illusioni su possibili sinergie tra cultura e politica: il pessimismo della ragione è l'unico atteggiamento realista immaginabile qui e ora.
Intervista a cura di Pierre Lepori
© Cultur@ctif , luglio 2006
Sandro Bianconi, Bibliografia
Giovanni Basso, prevosto di Biasca : (1552-1629), Locarno, Dadò, 2005.
Statistica e lingue : un'analisi dei dati del Censimento federale della popolazione 2000, con Matteo Borioli, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, 2004.
Lingue di frontiera : una storia linguistica della Svizzera italiana dal medioevo al 2000, Bellinzona, Casagrande, 2001.
Plurilinguismo in Val Bregaglia, Bellinzona, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, 1999.
L'italiano in Svizzera : secondo i risultati del censimento federale della popolazione 1990, a cura di Sandro Bianconi, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, 1995.
Lingue nel Ticino : un'indagine qualitativa e statistica, a cura di Sandro Bianconi, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, 1994.
Plurilinguismo nella Svizzera italiana: le lingue nella Svizzera italiana secondo il censimento federale della popolazione del 1990, con Cristina Gianocca, Bellinzona, Ufficio di statistica, Dipartimento delle finanze e dell'economia, 1994.
Tessin : eine offene Region, a cura di Remigio Ratti, Raffaello Ceschi, Sandro Bianconi, Massimo Baggi, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1993.
Linee di tendenza dell'italiano contemporaneo : atti del XXV Congresso internazionale di studi della Società di linguistica italiana (Lugano, 19-21 settembre 1991), a cura di Bruno Moretti, Dario Petrini, Sandro Bianconi, Roma, Bulzoni, 1992.
Il vescovo, il clero, il popolo : atti della Visita personale di Feliciano Ninguarda alle pievi comasche sotto gli Svizzeri nel 1591, a cura di Sandro Bianconi e Brigitte Schwarz, Locarno, Dadò, 1991.
Il Ticino, regione aperta : problemi e significati sotto il profilo dell'identità regionale e nazionale, a cura di Remigio Ratti, Raffaello Ceschi, Sandro Bianconi, Massimo Baggi, Bellinzona, Istituto di ricerche economiche, 1990.
I due linguaggi : storia linguistica della Lombardia svizzera dal '400 ai nostri giorni, Bellinzona, Casagrande, 1989.
Lingua matrigna : italiano e dialetto nella Svizzera italiana, Bologna, il Mulino, 1980.
Comportamento linguistico e riuscita scolastica dei giovani ticinesi, Bellinzona, Ufficio cantonale di statistica, 1979.
Dal 1o al 20o Festival del film, Locarno 1946-1967, a cura di Sandro Bianconi e Freddy Buache, Locarno, Tip. Stazione, 1967.
"Geografia e storia dell'italiano in Svizzera", Archivio Storico Ticinese, giugno 2006
Quello dello statuto giuridico e della realtà concreta dell'italiano in Svizzera è un tema sensibile che riaffiora periodicamente nei suoi aspetti sociologici e politici, ma mai come oggi le nozioni stesse di "paese plurilingue" e di "difesa delle minoranze culturali" si sono sentite minacciate e richiedono di essere ripensate.
L'abolizione di cattedre e corsi di italianistica a nord delle Alpi, la scarsa o nulla considerazione per l'italiano alle Giornate letterarie di Soletta (che pure si propone come un festival nazionale) e le relative proteste, sono soltanto alcuni degli indizi più evidenti di un fenomeno assai complesso che tocca le radici stesse del federalismo svizzero.
È in questo contesto che alla fine dell'anno scorso la rivista "Archivio storico Ticinese" (AST) si è fatta promotrice di un convegno intitolato "Geografia e storia dell'italiano in Svizzera" (Bellinzona, 19 novembre 2005). L'intento era quello di stimolare una discussione multidisciplinare sull'argomento, integrando la prospettiva storica con la linguistica e la sociologia, il punto di vista di chi scrive e traduce nella Svizzera italiana con quello di chi vive e opera oltralpe, la critica con l'autocritica.
Gli atti di quel convegno e l'appello che ne è scaturito sono ora pubblicati nel numero 139 dell'AST, che si articola come segue.
Dopo l'introduzione di Raffaello Ceschi, Norbert Furrer traccia il profilo di cinque bernesi che praticavano l'italiano nel XVII e XVIII sec. e li accompagna con un documentato elenco di persone "italofone d'oltre Gottardo" in età moderna e di libri italiani presenti nella biblioteca di un notaio bernese. Avvalendosi dei dati statistici più recenti, Sandro Bianconi traccia una radiografia dell'italiano in Svizzera e la mette in relazione con la politica linguistica della Confederazione. Fernando Iseppi descrive i risultati, sconsolanti, di un'indagine sull'offerta dell'italiano nelle scuole dei diversi cantoni. Quattro scrittori e traduttori svolgono poi considerazioni sull'attenzione svizzera alla letteratura in lingua italiana e sull'interscambio culturale: sono gli interventi di Fabio Pusterla (San Girolamo in ascensore), Pietro De Marchi (Un salto in libreria), Donata Berra (L'italiano in Svizzera, o la sindrome di Cenerentola), Ernst Strebel (Il gran rifiuto?). Ottavio Besomi e Michele Loporcaro esaminano invece la presenza dell'Insegnamento universitario dell'italiano nella diaspora svizzera.
Oltre agli atti del convegno bellinzonese, il fascicolo propone il saggio di Marco Dubini Il mercante e il commissario. Strategie politiche ed economiche in tempo d'epidemia nella Svizzera italiana (1535 -1721): si completa così il suo studio intorno alle vicende della politica sanitaria nell'età dei baliaggi già apparso nell'AST numero 137 del 2005. Su richiesta della redazione, Fabio Soldini presenta gli Itinerari di ricerca nella Venezia della seconda metà del '700 che lo hanno condotto a importanti scoperte documentarie sui letterati Gasparo e Carlo Gozzi.
La sezione "Approfondimenti" propone due contributi. Il primo è la relazione con cui, nel novembre 2005 alla Biblioteca Salita dei Frati, Franco Gavazzeni ha presentato il Carteggio di Tommaso Grossi curato da Aurelio Sargenti. Il secondo è una messa a punto di Alessandro Soldini a proposito della presenza di artisti tedeschi in Collina d'oro (Arte in Ticino: la collina trascurata). Il fascicolo presenta infine due nutrite sezioni di informazione bibliografica: a nove recensioni seguono altrettante fitte pagine di segnalazioni.
SOMMARIO
Atti del convegno "Geografia e storia dell'italiano in Svizzera"Bellinzona 19 novembre 2005
RAFFAELLO CESCHI, Geografia e storia dell'italiano in Svizzera
NORBERT FURRER, L'italien en terre bernoise à l'époque moderne. Cinq esquisses biographiques
SANDRO BIANCONI, La situazione attuale: tomografia dell'italiano in Svizzera
FERNANDO ISEPPI, Lingua e cultura italiana nell'offerta scolastica dei cantoni
FABIO PUSTERLA, San Girolamo in ascensore
PIETRO DE MARCHI, Un salto in libreria
DONATA BERRA, L'italiano in Svizzera, o la sindrome di Cenerentola
ERNST STREBEL, Il gran rifiuto? Cenni sulla ricezione della letteratura della Svizzera italiana nella Svizzera tedesca
OTTAVIO BESOMI - MICHELE LOPORCARO, L'insegnamento universitario dell'italiano nella diaspora svizzera
Un appello dal convegno
MARCO DUBINI, Il mercante e il commissario. Strategie politiche ed economiche in tempo d'epidemia nella Svizzera italiana
FABIO SOLDINI, Itinerari di ricerca nella Venezia della seconda metà del '700. Sulle tracce di Gasparo e Carlo Gozzi
FRANCO GAVAZZENI, Per il Carteggio di Tommaso Grossi
ALESSANDRO SOLDINI, Arte in Ticino: la collina trascurata
Geografia e storia dell'italiano in Svizzera (Raffaello Ceschi) Introduzione
L'AST è una rivista storica che coltiva un impegno culturale e intende confrontarsi con il presente. Negli ultimi tempi la rivista ha cosí promosso incontri o riflessioni su diverse questioni d'attualità: sull'uso, l'abuso o il disuso della storia nel discorso politico e nella nostra società; sulla politica adottata dalla fondazione culturale Pro Helvetia nei confronti delle minoranze; sulla proliferazione di proposte museali nel Ticino nell'intrico dei progetti culturali elaborati dai pubblici poteri; sulla conservazione o la distruzione di documenti pubblici utili alla storia, per dissentire dalla decisione annunciata dal governo svizzero di far distruggere gli appunti presi durante le sedute dal vicecancelliere federale Achille Casanova. L'attenzione ai problemi culturali si traduce necessariamente in un impegno anche civile. E l'incontro di oggi ha una triplice valenza, poiché occuparsi di Geografia e storia dell'italiano in Svizzera significa avviare una ricognizione storica sulle fortune e le sfortune della lingua e della cultura italiana nella società e nello stato, proporre inoltre un'analisi delle attuali congiunture, e offrire infine un contributo alla maturazione di una azione politica ponderata. La lingua italiana è presente nella Svizzera in modo istituzionale da mezzo millennio, dalla conquista di baliaggi sul versante meridionale delle Alpi. La cultura italiana è presente nel territorio elvetico e nell'universo editoriale svizzero da quasi altrettanto tempo, dall'epoca della Riforma e delle migrazioni per fede: basti pensare ai Lucchesi di Ginevra, ai Locarnesi e agli italiani di Zurigo e Basilea e a quelli attivi nei Grigioni. È noto che gli italiani fuggiaschi per motivi religiosi pubblicarono presso gli stampatori svizzeri anche parecchie opere nella loro lingua, arricchendo il contesto culturale della Respublica Helvetiorum. È forse meno noto che le piú importanti opere dei riformatori di Ginevra e di Losanna (Théodore de Bèze, Pierre Viret) furono tradotte in italiano dagli esuli transalpini presenti in Svizzera. E occorre appena ricordare che il monumento della letteratura italiana fiorita in Svizzera è la traduzione della Bibbia pubblicata a Ginevra dal profugo lucchese Giovanni Diodati nel 1607 in una prima edizione, nel 1641 in quella definitiva che nutrí lo spirito di generazioni di riformati italofoni. Facciamo ora un salto di alcuni secoli per tornare al presente e chiederci come stia la lingua italiana nella Svizzera, e quale sia il suo stato di salute. Se mi è concesso anticipare alcune considerazioni o impressioni personali direi che la lingua italiana: a) ha uno statuto giuridico che la riconosce come lingua nazionale e ufficiale, ma la confina, secondo le concezioni ottocentesche di territorialità linguistica, in ben delimitati spazi: il cantone Ticino, le valli italiane del Grigioni, fuori dalle aree protette la sua esistenza non è per nulla garantita oppure fruisce di diritti fantomatici e fittizi; b) ha una valenza simbolica molto forte, perché la sua presenza sul territorio elvetico, superando le tensioni e opposizioni bipolari tra il tedesco e il francese, legittima il modello multiculturale e plurilingue, con il quale la Svizzera afferma (o affermava) il proprio diritto all'esistenza nell'Europa come isola ed esempio di armoniosa convivenza di culture; c) ha una quotazione assai bassa nella borsa degli attuali valori economici sociali e culturali elvetici, e tendente ulteriormente al ribasso; d) arrischia di farsi stritolare da due movimenti contrapposti: il primo è la riduzione deliberata delle questioni linguistiche dentro la dimensione cantonale, che ostacola una politica linguistica di orizzonte nazionale (noto di passata che le forze politiche svizzere auspicano, in contraddizione con la politica linguistica, la nazionalizzazione delle politiche educative cantonali). Il secondo è l'ascesa di una sorta di darwinismo politico che afferma il diritto del piú forte, e tenta di sbarazzarsi del costoso e delicato congegno del federalismo solidale, per fare spazio al centralismo burocratico e al mito dell'efficienza. L'intenzione e il compito di questo incontro sono proprio quelli di analizzare comevadano le cose e di trarne dati e argomenti utili all'agire politico.
Raffaello Ceschi
© Archivio Storico Ticinese, giugno 2006.
|