Pietra sangue, Milano, Marcos y Marcos

Muri che crollano, rottami sulle onde, come in un trionfo di pagine e brandelli: sfilano le cose, in questi nuovi versi di Fabio Pusterla, tra luce e oscurità, e sono più i drammi che le gioie.

Vengono cantati, quasi, questi luoghi cupi, quelle immagini piene di strappi, da una voce sommessa, che sale dal basso, parla piano, dal fondo.

Traccia cammini fatti di contrasti vivi, dolorosi: ma è la forza di quella voce, poi, a condurre ben oltre la disperazione.

Proprio ciò che è inutile sa di intenso, ciò che cade in rovina alimenta la memoria.

Con l'aiuto della penna, la voce per un istante ricompone lo strappo, lo sguardo avvista qualcosa che rimane: la poesia, appunto.

information: Maurizio Chiaruttini

Marcos y Marcos pubblica l’ultima raccolta poetica di Fabio Pusterla

Solo gocce di luce nella "Pietra sangue"

"Betulla impietrita dal gelo, catasta nera / di legna gravata di neve e dentro il cielo / come una strozzatura, vento o ghiaccio. C'è un silenzio / totale, dunque, un ciclo / che nessuna pietà può rompere o descrivere, un inverno / cieco, che non ammette primavere? / Freddo che fende i tronchi, apre le vene / dei campi e li uccide e li guarda morire / e li cancella?".

Questi versi – contenuti nella terza composizione di Pietra sangue (Marcos y Marcos, 1999) – sono tipicamente pusterlariani: gli elementi naturali, gelo, ghiaccio, vento, silenzio, strozzature, conducono immediatamente il lettore in una terra desolata, dove l'inverno sembra non finire mai, e anche quando arriva il sole va via subito, deposita, qua e là, solo gocce di luce, chiazze di luce inumidita. A differenza delle precedenti raccolte (Concessione all'inverno, Bocksten, Le cose senza storia) si respira in questo libro l'inarrestabile incedere del vuoto ("so troppo bene cos'è svegliarsi di notte, / tendere invano l'orecchio, maledire / il nulla che ti attornia, / un muro inerte."), di un crollo che risucchia ogni cosa, anche la memoria, anche la parola: se è vero che questi in fondo sono sempre stati i temi amati da Pusterla, la differenza rispetto a quanto scriveva in passato sta nel fatto che le sue immagini non hanno quasi più alcuna connotazione simbolico-esistenziale. Per il poeta ticinese il confronto con gli elementi più cupi della vita voleva essere il disperato tentativo di vivere nella verità, di non gridare solo per paura, di accettare senza inganni la vita per quello che effettivamente è, un'esperienza in fondo inconcludente, senza un vero senso. Insomma, Pusterla voleva attraversare la "terra dei morti", imboccare la strada impervia della verità, accedere a quel giardino dove le cose non sono solo nere o bianche, ma dove era dolcissimo il campo dei colori. La sua speranza, forse, era di fuoriuscire da quel nero alambicco nel quale si era gettato con Bocksten, e, dopo aver affrontato il buio, la privazione, vedere una nuova luce. Se in parte la speranza si era ridestata in Le cose senza storia, in Pietra sangue tutto ritorna a essere un sogno, anzi tutto ritorna a essere vita, solo dura vita: "Se la nebbia si apre, per un attimo, / se il vento delle altezze alza il sipario in un turbine, / proprio là dove il caso indirizza lo sguardo, / appare, chiaro, un lembo di montagna, ma staccata / da terra, quasi in volo: aquila immensa / di roccia nera e neve, artiglio ed ala".

In questa raccolta le composizioni non si inseriscono in una cornice, in un disegno esistenziale preciso (nel senso di progetto, di percorso che vuole arrivare a una conclusione, a delle risposte), ma la sensazione che si prova è che le parole, le immagini, i ricordi siano persi nel tempo e nello spazio. Al poeta non rimane che "fotografare" le cose, persino la sua voce – nella giovinezza rabbiosa e pungente – appare lontana, solo raramente increspata da sottili momenti di serenità e consapevolezza. Ne la bellissima I gusci secchi dei giorni si legge: "Per una volta si attraversano i ricordi / con leggerezza, e ogni passo più in là / cancella il precedente. A valle resta / una bruma che somiglia a un sorriso / non la risata greve che dimentica, un sorriso / soltanto, un grumo discolto nell'aria. / Si possono talvolta registrare / queste brevi, definitive vittorie: fermi sassi / su cui poggiare il piede, tra un sentiero / allegramente smarrito e uno da ritrovare / senza fretta, camminando / sopra gli aghi di pino sparsi al suolo, / gusci secchi dei giorni". Tutto, però, sembra sempre essere sull'orlo del precipizio, la speranza appare quasi un gorgo di luce, un miraggio che muta in smaltata apatia, rassegnazione: "Melassa. A volte / sembra melassa questo tempo / che riduce ogni cosa a fanghiglia / privata. Come ogni cosa ricade / e si sfa, come ogni foglia / piange sul suo destino, e poi si smorza / e si perde in gioiosa apatia. Ma quante storie / s'intrecciano e vana / pare ogni nostalgia d'un'altra luce. / Speranza? Forse, / se resta tempo e forza; soprattutto / la pazienza di ascoltare ogni voce". Per Pusterla, forse come non mai nel suo percorso poetico, il dubbio si insinua anche nella stessa ragione dell'atto poetico, forse anch'esso vano, illusorio o comunque ininfluente: "La voce che parla non cerca nessun ascolto, / eppure spera che il suo soliloquio non sia vano, / che un uscio l'accolga in silenzio, / offra una luce, un ramo di forsizia". In fondo, il senso di tutta la raccolta si nasconde già nella proemiale composizione intitolata Quasi un'allegoria, dove Pusterla sembra schernire i maestosi cigni-(poeti?) del lago che dall'alto di inutili, lunghissimi colli credono di sapere..., fingono e "la notte li senti sbattere le ali, cadenzare / lo sforzo quando cercano, ma con quale fatica, di prendere il volo".

Il titolo della raccolta, Pietra sangue, allude alla lavorazione artigianale della scagliola, o "marmo dei poveri". Pusterla, nelle fitte note al libro, spiega come in una valle comasca, gli scagliolisti usavano lucidare la lastra di gesso e colla (dallo sfondo generalmente nero, decorato da intagli e disegni stilizzati in vari colori) con sette diverse pietre gelosamente custodite. L'ultima di queste pietre, verosimilmente l'ematite, è detta in dialetto piétra saanch. La lucidatura con questa pietra era importantissima ma non priva di rischi: infatti l'ematite la tìra fö 'l bèl e la làsa lì 'l brüt. Nella omonima composizione alcuni brevi versi possono idealmente assurgere a pilastri tematici dell'intera raccolta e ribadiscono con chiarezza quanto esposto precedentemente: "Scaglia di gesso, polvere / impastata con l'acqua e con la colla, / il fondo nero lucente / dei colori. Anni di pietra / e silenzio, giorni persi / solo per pochi istanti luminosi". È difficile capire veramente cosa rappresenti per Pusterla la "luce", l'elemento sicuramente più ricorrente in tutta la raccolta: qua e là, fra immagini cupe e desolanti, fortemente malinconiche, bandiere sgualcite di una sconfitta inesorabile, senza appello, si insinuano sottili brandelli di qualcosa che vuole sopravvivere, qualcosa che possa essere ricordato, vissuto nella serenità di un vuoto che appare al poeta inarrestabile, totale. Nel frontespizio interno di Pietra sangue, in fondo alla pagina, quasi volutamente nascosto, si legge: "Qui: c'est la lumière qu'il faut à tout prix maintenir (Philippe Jaccottet)". Nell'ultima significativa e in fondo riassuntiva composizione Pusterla scrive: "qui / non si può più parlare delle cose, / ormai scomparse o scordate o inconoscibili; / solo resta l'amore o la sua ombra, / il segno di una luce traslocata, unica traccia / esile, filiforme, da seguire / a distanza, come un volo / improbabile, alto / e forse in grado / di attraversare la tormenta, di forare / la spessa volta del cielo. Ora è viaggio / muto".

Andrea Moser

15.01.2000