Isla Perla

Fabio Pusterla, come dice il Mengaldo «forse il maggiore poeta fra i coetanei di lingua italiana» – riappare in libreria con una robusta plaquette intitolata Isla Persa. Dopo il fitto volume Le cose senza storia (Marcos y Marcos, 1994) il poeta affida le sue nuove produzioni all’editore ticinese Il Salice. Con rinnovato stupore constatiamo che la raccolta è andata brevemente esaurendosi costringendo l’editore alla stampa di una seconda edizione: Pusterla, evidentemente, è un poeta con un proprio pubblico, fedele, attento a quanto l’ancora giovane scrittore produce. Questo fatto è indubbiamente singolare in quanto si sa che la poesia è poco letta, i suoi lettori si limitano spesso ad altri poeti, a critici letterari, a persone comunque a stretto contatto con il mondo della Letteratura. Ritrovare allora in una libreria ticinese un elegante volumetto, con un titolo non facile e comunque non appariscente, su cui è posto dopo pochi mesi una fascetta rossa su cui si legge seconda edizione è un evento sorprendente che lascia qualche speranza alla fragile Poesia.

Prima di soffermarsi dettagliatamente sulle composizioni è forse utile spendere qualche parola sul titolo della raccolta: Isla Persa – una gigantesca roccia incastonata nel ghiacciaio del Morteratsch in Engadina Alta – è un’isola immersa nel gelo che nei secoli non è mai stata coperta dal ghiaccio. La sua descrizione è affidata all’omonima composizione: è un luogo circondato da crepacci, ghiaccio, gorghi di luce, grossi blocchi di granito, silenzi rotti solo da vaghi sordi tonfi di cui non si sa nulla, e qui se qualcuno fosse inghiottito dalle larghe rose di luce che si riverberano dalle taglienti pareti dei numerosi squarci profondi che si insinuano nel ghiacciaio nessuno lo saprebbe mai, un’altra storia, un’altra vita si perderebbe nel vuoto, in un silenzio di grida. È da questo luogo selvaggio, freddo, di una bellezza inconsistente e inafferrabile che riprende il viaggio di Pusterla, il ritorno nella terra dei morti, dove il nulla è paura, furia, e dove i ponti del ritorno sono stati definitivamente distrutti, e i confini non esistono e tutto è pianura, soltanto pianura e ancora pianura.

Isla Persa nasce probabilmente dalla recondita necessità di Pusterla di comprendere la morte di un amico, Morris, di non permettere che il suo passaggio scompaia nel vuoto, nell’oblio che per il poeta è peggio della morte, è l’indifferenza con cui ci si ripara dalla paura, dalla vertigine dell’ignoto. Se con Bocksten (Marcos y Marcos 1989) l’autore sembrava aver definitivamente affrontato il buio, il mostro dai denti lunghi e dalle gengive rosse promettendosi di non gridare solo per paura, l’inconcludezza della vita e il continuo alternarsi di gioia e di insensatezza – propria di quell’allegria e quella speranza che pervadeva molte parti della raccolta Le cose senza storia dove Pusterla sperava che i bambini potessero trovare il gioco che ci salvasse – ha riproposto a Pusterla l’arduo confronto con il dolore.

La sezione intitolata Bois de la folie – quella per altro più corposa del libro – ripropone la struttura già proposta in Bocksten: allora Pusterla dialogava con il Bockstenmannen, un uomo probabilmente linciato nel XIV secolo, e rinvenuto intatto in una torbiera della costa occidentale svedese; ora, attraverso la medesima materializzazione poetica, l’autore ascolta le parole di un altro uomo – con tutta probabilità la voce è quella di Morris – confinato in un altrove immateriale, dove l’apparente calma nasconde una ferocia inaudita. Questo luogo non è solo la terra dei morti, l’altidilà da cui gli altri, quelli scomparsi, raccontano ciò che resta, ma è soprattutto la regione più nascosta, l’inferno nel quale il solitario viandante era immerso in vita, volontariamente alla ricerca dell’autodistruzione (cfr. Bilancio dello sperperatore). Se da un lato l’uomo appare un disperato, un escluso, qualcosa di solidamente vivo sembra trasparire dalle sue parole: è un refolo di totale libertà, di consapevolezza nei confronti di sé stesso e della vita che ha scelto di condurre. La libertà – sembra dire Pusterla-Morris – il lasciarsi cadere, è una via che conduce ai margini dell’assoluto, nella terra del vuoto, della pura luce, dove il compromesso non esiste e le cose hanno il taglio netto del ghiaccio: «Abbiate cura degli argini, / se ancora lo potete. Custodite / i muri, i confini fragili. / Oltre è paura, e furia» (Bois de la folie, III). L’uomo ha dunque percorso un sentiero parallelo, una strada difficile, impervia, inesplorata che volontariamente vuole rimanere avvolta nel mistero, perché i fondamenti più profondi della vita di ogni individuo e l’intimo rapporto con se stessi, sono forse le uniche cose che ci appartengono veramente e che nulla e nessuno potranno mai carpirci: «Non ho permesso a nessuno / di seguirmi fin qui. / Mai potrete sapere / che strada ho fatto o smarrito. / Musiche sorde / di trapano e scintille mi guidavano».

Le poesie di Pusterla – spesso taglienti e dure come le schegge di legno prodotte dall’ascia – sono quindi venate da un’atmosfera sincera, etica, sempre discretamente orientate verso l’individuo singolo e verso il faticoso percorso di tutti gli uomini che in un modo o nell’altro vogliono essere fedeli a se stessi, anche pronti ad affrontare l’impresa più difficile: vivere veramente la propria vita. È questo, in fondo, il motivo per cui Pusterla è un poeta amato, letto anche da chi non è solito leggere testi di poesia. Ognuno, nelle sue composizioni, ritrova un po’ della propria vita: gioia, dolore, speranza, solitudine, e quella sottile incertezza che come un’ombra accompagna il trascorrere dei nostri giorni. Se vogliamo per Pusterla la vita è un viaggio (cfr. Due rive, I) un incedere rassegnato, ma consapevolmente sereno verso il proprio destino, finché dura…: «Quello che è piatto, / e non vuole finire e si prolunga / nella speranza, senza scopo / apparente, come il mare / o certe terre del nord, / di opachi colori impercettibili: / chi è passato di qui si sarà perso, / sollevando un sottilissimo nugolo / di polvere. / Ma andrà avanti lo stesso, a passi uguali, / con la sottile felicità di non lasciarsi / niente alle spalle» (Bocksten, Una pianura e tre poesie sull’acqua, I).

Andrea Moser

 

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