Un lacerante vissuto familiare colto da una voce nuova e già matura
Tra le poche opere prime notevoli degli ultimi anni nella Svizzera italiana

Difficile sostenere il peso di una poesia "esistenziale" senza lasciarsi tentare da quello che è stato chiamato il mito autobiografico. Oppure, per vie opposte, senza cedere alla voglia di recensire passivamente frammenti del proprio vissuto, come accade presso troppi epigoni del crepuscolarismo. Con la sua raccolta Qualunque sia il nome ( Bellinzona, Casagrande 2003), a mio parere una tra le poche opere prime notevoli degli ultimi anni nella Svizzera italiana, Lepori dimostra di saper schivare entrambi i pericoli. Che il suo mondo poetico si costruisca su un fondale dominato dal romanzo familiare (dai suoi riverberi traumatici, dal prudere di antiche e dolenti cicatrici che si tramandano per generazioni) è indubbio.
Ma a risolvere su un piano più alto l'antefatto di cronaca di cui è stato pur necessario conservare fino in fondo gli umori attraverso accenni memoriali replicati, spesso crudeli, interviene una concezione poetica decisa ad affrontare il lungo percorso che dall'ìnaugurale avvertimento del magma inenarrabile, dalla sempre lacunosa registrazione del vissuto, s'indirizza " verso la riappropriazione del dire". Il che non significa attribuire alla parola poetica ambizioni salvifiche. "Non voglio dire che essa salva", afferma l'autore, "solamente che essa conduce, come è sempre stato in poesia" E condurre è verbo intensamente impregnato di connotazioni cognitive; è il condurre avanti, come dice Fabio Pusterla nella prefazione, "verso la capacità di dire ciò che per troppo tempo non è stato detto".
La meta, magari soltanto avvistata, sarà perciò qualcosa di analogo al freudiano prosciugamento dello Zuydersee. Una dinamica evolutiva sembra dunque correlare le due parti della raccolta. Mentre nella prima ("Qualunque sia il nome") il fuoco del trauma è ancora ben vivo, dentro sequenze di depressioni oniriche o rêveries e sotto le insegne di una torbida domesticità inquisita e a tratti decostruita, nella seconda ("Fratelli") si assiste a quel perseguimento della consapevolezza che passa attraverso l'abbandono delle illusioni solipsistiche fino alla parziale conquista, anche "politica" in senso primario, di uno sguardo corale sul mondo o per lo meno ungarettianamente fondato sull'esperienza della fraternità. Al punto d'avvio c'è la ricerca di un ubi consistam, l'esitazione davanti alla necessità di stabilire qualche coordinata dentro la realtà circostante, nonché di mettere a fuoco un io minacciato di sparpagliamento o di identificazioni improduttive.
È l'esperienza dove ancora il silenzio opera per sibilline sottrazioni psichiche e "l'orizzonte è ormai vuoto", dove il corpo "è un muro/ nella cui cinta calare il silenzio". Ma già nel "Poscritto" si percepiscono alcune vie di riscatto: ad esempio una rinata confidenza con gli oggetti, che riemergono "come alla fine di un sogno" per passare in seguito, da anonimi fantasmi quali erano, allo stato di entità nominabili, similmente al corpo proprio che "si ridisegna di parole".
La nominazione, soprattutto quella scaturita dalle voci del corpo e tesa a conferire un minimo di senso al "ritorno del rimosso", si rivelerà un'operazione difficile, a sua volta non immune da arresti. Anche in dirittura d'arrivo, quando "un primo noi levato" e il superamento della privata sofferenza ci indicano il compimento di un importante passo verso la coralità, le lunghe ombre del negativo sembrano lasciare residui. Sono forse le maschere "cucite direttamente sulla pelle", vale a dire il marchio di ciò che è avvenuto una volta per sempre, la traccia degli inganni subiti; quell'antica " deriva" e quei trasalimenti che la tesa espressività di Lepori impedisce di scivolare in una falsa quiete o nelle strettoie di un razionalismo semplificatore.

Gilberto Isella
Giornale del Popolo
9.12.2003