La vita è senza rimedio
Alberto Nessi scrive a Sandro Beretta

Caro Sandro Beretta,

ti do del tu perché talvolta è più facile confidarsi con i morti che con i vivi. Ci siamo visti una volta sola. Un incontro casuale, a Mendrisio, una sera della Settimana Santa, una di quelle sere che l'aria è impregnata di profumi, la camelia si mescola con la Camel, l'incenso con l'acqua di Colonia, il teatro delle processioni con il teatrino quotidiano. Quel teatrino che un po' è farsa, un po' tragedia. Perché "la vita è senza rimedio; per alcuni, almeno", dici in una lettera a un'amica di quegli anni.
Tu eri con il Piero, un comune amico che era sceso dal suo paese in collina con la moto. Forse eri arrivato a Mendrisio anche tu in moto dalla tua valle sopraccenerina, non so: ricordo una tua foto dove sorridi ardito in sella a una BMW 250 targata Argovia. Di quella brevissima conversazione, la sera del nostro incontro fugace, ricordo solo una frase: - Meglio un buon consigliere comunale di un cattivo scrittore. Una frase dell'ultimo periodo della tua vita, di quand'eri commesso di terza classe alla Cassa cantonale di disoccupazione ed eri stato eletto sindaco di quindicina a Leontica sulla Lista del Popolo, contro i " piedipiatti", i "cortigiani della vecchia guardia", come li hai chiamati. È un ricordo talmente sfumato che mi sembra un sogno: ci siamo visti davvero?
Doveva essere la fine degli anni Cinquanta. Io sono uscito dalla Magistrale nel 1959, tu sei morto di morte misteriosa nel 1960. Ci siamo sfiorati. Eri partito dalla val di Blenio dopo l'apprendistato di sarto e la valle ti era rimasta nel sangue. Così, un secolo prima, era rimasta nel sangue di Roberto Donetta, altro irregolare come te e come tutti gli artisti. Paese da amare e da lasciare, dunque. Cesare Pavese ha detto: "Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via". La Buzza di Biasca, per te, è un po' ciò che hanno rappresentato le collinette di Canelli per il protagonista di La luna e i falò: "la porta del mondo", ricordata da tuo fratello Americo in una testimonianza.
Da Leontica a Comprovasco, dall'atelier Arnaboldi di Dongio alle fabbriche d'in dentro a fare il sarto, tirandoti dietro la tua sacca di ribellione. Zurigo e Baden. Kleiderfabrik. Ma il tedesco non l'avevi mai voluto parlare. Le tue patrie erano due: la lingua italiana e la classe operaia. I tuoi veri maestri erano stati gli emigrati italiani che avevano partecipato alla resistenza antifascista e ora dormivano nelle baracche. "Ma questa umanità che lavora, non avrà dunque mai finito di essere "concentrata?", ti chiedevi in un articolo sul "Lavoratore". È una domanda che ci possiamo porre anche oggi, a cinquant'anni di distanza. Parecchi dei maestri di baracca erano schedati dalla polizia federale. Come te, diventato comunista a vent'anni e collaboratore del "Lavoratore", il foglio che puntava il dito contro la politica idroelettrica che svendeva le acque di casa tua. Come poi furono schedati tanti anticonformisti negli anni Settanta, in quella Svizzera che in un suo famoso discorso Dürrenmatt grottescamente rappresenta come una prigione nella quale gli Svizzeri si sono rifugiati e dove "ogni prigioniero, facendo obbligatoriamente il carceriere di se stesso, dimostra la propria libertà ". E proprio a Zurigo hai capito che ci sono almeno due Svizzere: quella generosa della Cooperativa italiana dell'Aussersihl e quella pidocchiosa di cui parla Engels in un suo resoconto di viaggio; la Svizzera di Cincera, lo schedatore zelante, e quella di Grüniger, il poliziotto refrattario; la Svizzera di Cristoph Blocher e quella di Jean-Francois Bergier.
Non so se sei stato un buon consigliere comunale, ma l'importante è che tu sia stato un buono scrittore, anche se pochi se ne sono accorti. Sì, lo sei stato. Perché da quella porta di valle hai saputo guardare il mondo. L'hai spalancata, quella porta, alla cultura, agli ideali, al vento che porta con sé la voce degli uomini, che dappertutto è la stessa: amore e morte, miseria e speranza. Certo, oggi nel mio paese sei stato dimenticato, perché - hai scritto in una lettera a un tuo amico di Losanna nei tuoi ultimi anni - "ora non si crede più a niente". Se tu ritornassi in vita, oggi potresti vedere i ticinesi travestiti da ticinelli sfilare per le via di San Gallo per far ridere i Confederati. Siamo sempre un popolo allegro, come una volta, e gli stranieri "no pasaran" facilmente nella nostra sacra, iperbolica repubblica: l'abbiamo dimostrato anche nell'ultima votazione sulle naturalizzazioni. Vedo che sorridi amaro. Ma voglio rassicurarti, nonostante tutto. La parola degli scrittori è un'acqua carsica che segue certi suoi percorsi segreti sotto terra e improvvisamente viene allo scoperto e si mette a zampillare. In letteratura ci si rivolge ad amici sconosciuti e un'acqua, se è fresca, trova sempre qualcuno che se ne disseta. Così, quando ho parlato di te ai miei studenti, uno di loro, di nome Flavio, è stato stregato dalla tua voce e ti ha seguito passo per passo nei tuoi percorsi narrativi. E oggi qualcuno ti studia anche nelle aule universitarie. La tua convalligiana Laura, per esempio, ti ha dedicato la sua tesi di laurea.
Dicevo di quella tua frase che mi è rimasta come ricordo del nostro incontro. Oggi parlare di impegno fa sorridere, eppure tu hai preso coscienza di quella che un tempo si chiamava la "questione sociale" pagando di tasca tua. Fra gli emigrati toscani, emiliani, liguri, nelle riunioni clandestine di Militärstrasse, nelle fabbriche di vestiti dove lavoravi come sarto-tagliatore per un franco e trentacinque all'ora - e le ore erano quarantanove per settimana -, nel Kreis Vier, il "quartiere carogna" dei senzadio sulla riva sinistra della Sihl; in quei luoghi hai imparato le cose "contro le quali non vale rivoltarsi uno alla volta". La frase è tua, non faccio che ripetere le tue parole. Che non sono piaciute tanto alla nostra borghesia. Può forse piacere uno che si iscrive al partito Operaio e Contadino, poi diventato Partito del Lavoro, uno che nel 1950 prende la tessera del Partito Comunista Italiano? "Comunista" e "italiano". Due parolacce, presso gli scribi e i farisei, i quali possono espellere un operaio solo perché ha sottoscritto tre franchi su una lista per il giornale. Poi, nel 1956, compreso l'inganno del "dio che è fallito", ti sei allontanato dal partito.
Rileggendo gli articoli che firmavi con la sigla Albe negli anni Cinquanta, si rivive un po' la storia degli emigranti ticinesi e italiani che, sradicati dalla loro terra non più contadina, si trovano a vivere la realtà della classe operaia. A questa realtà si può reagire con la rassegnazione, con la nostalgia per le campane del proprio paese, oppure con la solidarietà: tu hai scelto la solidarietà. Perché, come hai utopisticamente scritto nel passo di un tuo racconto che poi, in vista della pubblicazione, hai tagliato, "quando ci sarà il socialismo gli uomini conteranno specialmente per quello che avranno dentro il cuore". Tornato in Ticino, queste scelte generose ti hanno danneggiato. La sacra terra non si è smentita. Hai creduto di poter ottenere un posto alla Radio che potesse mettere in luce le tue virtù intellettuali, ma non ti hanno voluto. Eri scomodo. Davi fastidio.
Se rileggo i racconti che oggi vengono riproposti al pubblico, colgo nelle tue pagine la voce di uno scrittore che non rinnega le sue radici, pur opponendosi alla mentalità tradizionale. Si abbevera alle fonti del cristianesimo, ma non si lascia incanalare nelle gore della chiesa. Che cos'è l "amara pietà" che muove la tua penna se non una forma di religiosità disperata, perché sa che in questa società la redenzione è impossibile, il male non si può cancellare? Così, l'Agostina continuerà a patire la malinconia, la Nannina a sospirare, e quello di Creno a morire ammazzato. Anche se oggi i nomi e i luoghi dei disperati cambiano. Oggi sono altri a vivere le tue storie, sono i nuovi dannati che arrivano in Europa per sopravvivere. Qui, sono subentrati altri mali. Ma il male di fondo è sempre quello che anche tu hai sperimentato: vivere per l' "avere" e non per l' "essere".
Caro Sandro Beretta, mi rivolgo a te come ci si rivolge ai marginali, ai senza piedistallo, a quelli che nelle storie letterarie vengono citati in nota o nel capitolo dei minori. Nel Dizionario delle letterature svizzere pubblicato una decina d'anni fa, ti hanno dedicato esattamente due righe, nelle quali si dice solo che sei "degno di menzione". Bontà loro. Non ti condannano a morte, ti concedono la grazia. Ma tu sorridi, perché nel paese dove vivi adesso hai smesso di fare il guerrigliero scorrazzando con la BMW per le strade della valle e sei diventato saggio e guardi le cose di qui con un po' di distacco.
Se nella vita quotidiana i tuoi compagni di lavoro sono stati gli operai delle fabbriche, in letteratura i tuoi compagni di stile sono stati Giovanni Verga, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, anche se loro hanno avuto molta più fortuna letteraria di te. Beppe Fenoglio, specialmente, quello della Malora, in cui Vittorini annusò i famosi "afrodisiaci dialettali" . Questi afrodisiaci hanno lo stesso profumo del "terriccio provinciale" che nel 1956 la giuria del premio "Libera Stampa" ti rimproverò.
Oggi che il nostro paese si copre di plastica, quel terriccio, che puzzava sotto il naso dei giurati, risulta prezioso perché ci ha dato buoni frutti e perché in sé contiene un enzima che è sempre valido, nella letteratura come nella vita: l'enzima dell'autenticità. Questo enzima favorisce la trasformazione delle parole comuni in parole poetiche. In te, ha favorito il passaggio dei succhi vitali e la formazione del "nodrume" della tua prosa. Nodrume - nodrúm, nella versione terriccio - è una parola che ho preso da un tuo racconto e significa piccola creatura.
Caro Beretta, quando tu scrivevi i tuoi racconti io avevo quindici anni, andavo su e giù con la bicicletta nelle afose estati chiassesi e sognavo di essere poeta. Poi le Magistrali, la vita d'insegnante, un po' d'università. Tu, hai dovuto fermarti all'apprendistato. Ma la cultura te la sei fatta lo stesso. Leggevi i libri delle biblioteche scolastiche, sapevi a memoria passi dei Promessi Sposi, ti formavi su "Rinascita" e sulle Lettere dal carcere di Gramsci. Sei diventato l'unico caso rilevante, nella Svizzera italiana, di operaio-scrittore. Sei il "Cröisc" delle nostre lettere. Anche i tuoi compagni di Zurigo leggevano e i loro libri talvolta erano gli stessi che noi leggevamo di nascosto durante le lezioni, quando il professore ci annoiava. E che ora non legge più nessuno.
E i tuoi racconti? Oggi siamo rimasti in pochi a leggerli, perché le mode li hanno oscurati. Ma ci sarà sempre qualcuno che li apprezza, che non si accoda al gregge, che sa riconoscere la letteratura di qualità: quella che non disgiunge l'estetica dall'etica. Scrivere servendosi delle parole di tutti non significa scrivere in modo comune. Significa appartenere alla categoria degli scrittori che, dice Elias Canetti, "dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente". Come te, che hai condiviso la sorte dei tuoi simili, sei diventato gli altri per trasformarli in un'aria che, dal basso, ancora ci fa sentire la musica aspra della gente e dei paesaggi della tua valle. Te, che in quella lettera all'amica che ho già citato, dici: "E una cosa ancora dovremmo conservare e che ci accomuna: l'amore per i nostri paesi. Anche se domani tu sarai una donna importante ed io non farò mai niente di buono. Perché è una cosa che conta, un po' come voler bene alla propria madre e sentirci perciò un po' fratelli, quando ci guardiamo negli occhi".

Alberto Nessi
la Regione Ticino
11 dicembre 2004

 

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