Plinio Martini
Hommage pour le 25ème anniversaire de sa mort

Ilario Domenighetti à propos de Plinio Martini

En bref et en français

Ilario Domenighetti. Il évoque dans cette interview plusieurs aspects de l'œuvre de Martini, et commente la place qu'elle revêt dans le panorama des lettres italiennes de son temps : une place importante, que confirme l'intérêt croissant du lectorat et des éditeurs, aussi bien dans le domaine italophone qu'à l'extérieur.
Ecrivain largement autodidacte, Martini publie d'abord de la poésie. Nourri aussi bien de lectures contemporaines (Montale, Ungaretti) et plus anciennes (Leopardi, Pascoli), il démontre dès cette période une capacité d'assimiler plusieurs modèles et de les refondre dans une écriture toute personnelle. C'est ensuite essentiellement dans des articles que Martini défend sa vision du monde et de son pays. Selon Domenighetti, le passage à l'écriture romanesque survient à partir du moment où le Tessin traditionnel, ses paysages et ses valeurs apparaissent de fait condamnés à l'auteur - de sorte que Martini, de militant, devient créateur d'un monde perdu. Ses romans dépeignent le monde tessinois dans une regard encore héritier de la vision idyllique des Alpes d'un Zoppi ou d'un Chiesa, mais dans lequel intervient une critique politique et sociale nouvelle; il est l'un des premiers à avoir pressenti l'impact désastreux des grands travaux hydroélectriques de la Valle Maggia. Sa critique innovante de certains comportements religieux fut en outre d'une acuité exceptionnelle. Il serait réducteur de ne voir dans ses romans qu'un portrait de ce pays à l'époque des migrations transatlantiques : il s'agit aussi d'un journal de l'âme, d'une recherche des raisons d'agir psychologiques profondes de l'homme.
Si cette œuvre en dépit de ses aspects tragiques conserve une dimension optimiste, cela est dû à l'amour porté par Martini à son pays et à ses gens, et à sa conviction qu'il faut trouver le moyen de vivre ensemble, où que ce soit.

Su Plinio Martini. Domande a Ilario Domenighetti

Intervistandola dalla Svizzera Romanda, vorrei partire da un episodio da lei ricordato, l'incontro di Plinio Martini con Maurice Chappaz e Corinna Bille, a Bosco Gurin, nel 1954…

Anzitutto va detto che è stato un incontro curioso e del tutto casuale, che io stesso ho scoperto soltanto negli ultimi anni, prendendone poi spunto per aprire la mia Introduzione alla raccolta di interventi pubblici di Plinio Martini uscita nel 1999 con il titolo Nessuno ha pregato per noi (Locarno, Dadò). Martini per dieci anni è stato albergatore estivo a Bosco Gurin, il suo secondo lavoro accanto a quello di maestro di scuola elementare, una professione mal retribuita in quei tempi e che quindi costringeva molti maestri ad avere un secondo lavoro. Una sera la Bille e Chappaz capitano nel suo albergo, tappa di una lunga camminata alpina poi descritta dalla stessa Bille nel saggio À pied du Rhône à la Maggia recentemente ripubblicato (Ginevra, La Joie de Lire, 1999). Nel suo diario di viaggio la Bille dedica un paragrafo a quell'incontro, mentre Chappaz pochi mesi dopo pubblicherà in un giornale della Svizzera Romanda la traduzione di una poesia della prima raccolta di Plinio Martini, Paese così (1951). Martini invece non parlerà mai da nessuna parte di quell'incontro. Curioso è ricordare come dopo quella sera i tre scrittori non si sarebbero mai più rivisti e che in quella stessa sera, stando a una lettera inviatami da Chappaz, Martini non parlò della sua attività di poeta: che lo fosse se ne accorsero quando Martini qualche tempo dopo spedì loro la sua prima raccolta di poesie. Un incontro dunque che sembra essere stato piuttosto uno scherzo del destino, che ha fatto incontrare casualmente tre persone che poi si imporranno fra le voci più rappresentative della letteratura Svizzera del Novecento

Bille e Chappaz, come detto, incontrano in quel frangente un poeta: quanto contò (in positivo e negativo) per Martini questa prima esperienza di scrittura poetica (con i due libri Paese così e Diario forse d'amore) per il futuro polemista e romanziere?

Contò anzitutto quanto contò per tanti altri scrittori italiani di tutti i tempi che arrivarono alla prosa dopo un più o meno lungo tirocinio attraverso la poesia. Va poi ricordato che Plinio Martini è stato sostanzialmente uno scrittore autodidatta, se pensiamo che la sua formazione scolastica è stata quella di maestro di scuola, alla Magistrale di Locarno, dove secondo lo scrittore lo studio della letteratura del Novecento si concludeva con D'Annunzio. Ora, se leggiamo il commento di Alessandro Martini alla recente raccolta di poesie di Plinio Martini, Prime e ultime, Locarno, l'impressione edizioni, 2001, possiamo accorgerci come entro le sue poesie fitti siano gli echi di molte voci recenti (Ungaretti, Montale, ecc.) e più antiche (Pascoli, Leopardi, ecc.) della tradizione poetica italiana. Sin dagli esordi Martini non si pone quindi come un qualsiasi poeta della domenica, ma già nei primi giovanili esercizi poetici, esteticamente magari ancora grezzi, egli mostra una naturale capacità di assimilare più modelli di riferimento e di farli poi lievitare nella creazione in proprio, ciò che preannuncia uno scrittore di razza. D'altra parte, anche solo ponendo mente ai titoli delle due prime raccolte da lei citate, ci accorgiamo che essi anticipano i principali nuclei tematici e narrativi dei futuri romanzi di successo. Per limitarci al Fondo del sacco, non è forse questo romanzo il ritratto di un "paese", l'affresco di una civiltà agro-pastorale al tramonto presentata entro una tragica storia d'amore raccontata attraverso la forma narrativa di un diario?

Tra la prima produzione poetica e i due romanzi principali, corrono poi più di vent'anni, riempiti da una densa attività di articolista: per quale motivo Martini, nel 1970, decide di trasfondere i motivi polemici legati allo scempio della sua valle in una narrazione, quella de Il fondo del sacco?

Cominciamo col dire che, quando Martini arriva al Fondo del sacco, oltre a una densa attività di articolista ha pure già alle spalle un'importante attività di narratore, anche se soprattutto di racconti, in particolare di racconti per ragazzi. Addirittura aveva già scritto una buona parte di un romanzo per ragazzi che però lasciò incompiuto. Inoltre va anche ricordato come lo scrittore nella sua prima intervista radiofonica del 1954 (che si può ascoltare sul sito http://www.rtsi.ch/scrittori) manifesta esplicitamente la volontà di scrivere un romanzo in un prossimo futuro. Ufficialmente invece, Martini ricorda di essersi deciso a scrivere Il fondo del sacco quando si rende pienamente conto che la cultura del suo paese è degna del massimo rispetto, anche letterario. Da parte mia, tornando alla sua domanda, avrei anche una spiegazione più a carattere psicoanalitico: Martini scrive il Fondo del sacco quando si rende conto che la partita è ormai definitivamente persa, cioè che la secolare cultura del suo paese, l'antica civiltà di cui era stato uno degli estremi testimoni e che aveva difeso a lungo come articolista, stava per esser spazzata via dagli interessi economici della nuova società dei consumi e del 'benessere'. Allora scrive Il fondo del sacco come una sorta di freudiano lavoro del lutto, vale a dire per ricreare dal di dentro ciò che stava perdendo al di fuori.

Lei stesso ha più volte ricordato lo scarto stilistico esistente tra Il fondo del sacco e il Requiem per zia Domenica (1976): in che modo Martini rielabora il suo stile narrativo dopo il primo romanzo, per quali motivi e sotto quali spinte?

Il fondo del sacco, come ci ha spesso ricordato lo stesso autore, è un romanzo in prima persona dove il paese e la sua storia è narrata dall'interno, cioè dal punto di vista del protagonista, Gori, che quel mondo l'aveva vissuto e assimilato direttamente e spontaneamente. Tanto che per esercitare più a fondo la funzione di critica sociale Martini deve inventare la figura del giudice Venanzio. Martini ricordava pure come Il fondo del sacco, per coerenza con la lingua e la cultura del protagonista narratore, fosse stato pensato in dialetto e scritto in italiano. Protagonista del Requiem per zia Domenica è invece Marco, un intellettuale che ritorna al suo paese per il funerale della zia e che cerca di porre i luoghi d'origine a una certa distanza, per permettergli una maggiore neutralità di giudizio. Così la rivisitazione del passato viene filtrata attraverso i libri della biblioteca personale di Marco e ne nasce l'insistito gioco citazionale che caratterizza il romanzo. Fra il primo e il secondo romanzo assistiamo insomma al passaggio da un neorealismo per così dire naturale a una sorta di neorealismo linguistico, essendo evidente in Requiem per zia domenica la volontà di cogliere la realtà soprattutto attraverso le espressioni verbali che la nominano. Tuttavia, a monte di questa radicale virata stilistica, sta la lezione espressionistica di Carlo Emilio Gadda, di cui Martini, come si diceva per gli esordi in poesia, è stato bravo a cogliere immediatamente la carica innovativa e a piegarne e mediarne gli insegnamenti ai fini della propria creazione. Ma a questo proposito, per una più ampia trattazione della questione di Gadda in Martini, mi si permetta di rinviare alla mia Introduzione alla recente riedizione del Requiem per zia Domenica, Locarno, Dadò, 2003.

La dimensione linguistica dell'opera narrativa di Martini è in parte segnata dalla presenza del dialetto (penso ad esempio al "gran rincrescere" che trapunta Il fondo del sacco): si può in questo senso parlare di una "lingua martiniana" oppure essa si apparenta ad altre esperienze letterarie alto-lombarde e ticinesi?

La lezione di Pavese (La luna e i falò) e di Fenoglio (La malora) sono state indicate dalla critica come le fonti di ispirazione più vicine nella concezione dello stile del Fondo del sacco. Soprattutto da Fenoglio, e prima ancora da Verga, Martini potrebbe essere stato legittimato al libero uso di plurimi calchi dal dialetto. Tuttavia bisognerà guardarsi dalle eccessive semplificazioni e provare un giorno a studiare più da vicino la lingua di questo romanzo, ciò che non è ancora stato fatto. Preliminarmente, posso dire che il sostrato dialettale tende a farsi meno importante nelle pagine ad esempio dove l'autore narra le vicende svoltesi in America. Inoltre, contraddicendo lo statuto del personaggio narratore poco alfabetizzato e di scarsa cultura, la narrazione non va esente da citazioni occulte che ne elevano il tasso di letterarietà: da Dante a Manzoni, da Porta a Leopardi, da Joyce a Caldéron de la Barca, ecc. Forse, come Lei ipotizza e una volta studiata, può darsi che la lingua del Fondo del sacco sveli qualche sua specificità, uno stile neorealistico proprio a Martini.

"Eravamo un'isola fuori dal tempo, una brancata di farina in fondo al sacco", questa la frase da cui nasce il titolo del romanzo d'esordio di Martini: il tema verghiano dei "vinti" e del loro scontro con la modernità è un motivo dominante dello scrittore di Cavergno. Eppure, non si può dire che si tratti di una visione misoneista, con tentazioni di ripiegamento: come si colloca Martini rispetto alla letteratura ticinese del tempo, rispetto all'alpe idillica di Zoppi o all'alpe tragica di Poma, ad esempio?

La domanda è complessa e domanderebbe un saggio a parte. Per tentare di risponderle nel modo più sintetico, converrà subito ricordare che l'alpe e la civiltà contadina sono stati temi dominanti in tanti romanzi che hanno fatto la storia della letteratura svizzero italiana del Novecento. Ma fino a Chiesa e Zoppi ha prevalso l'alpe angelicato, una realtà edulcorata, pura, spesso rappresentata attraverso gli occhi ingenui di un adolescente, ideologicamente incontaminata. A partire dagli anni Sessanta però anche la letteratura svizzero italiana cambia registro e la critica politica e sociale, accanto alla sessualità, alla colpa, ecc. - nonché allo scontro, cui Lei accenna, con la modernità - diventano temi stabilmente presenti nelle nostre migliori opere. Per il titolo del Fondo del sacco invece, ha senz'altro ragione da una parte, dall'altra va ricordato che si tratta di un titolo bifronte. Nella seconda pagina del romanzo troviamo infatti una seconda motivazione che è anche una seconda sua chiave di lettura dell'opera: "forse mi può far bene a vuotare il sacco fino in fondo". Come ricordavo prima, occorrerà quindi leggere Il fondo del sacco certamente come il ritratto di un 'paese così' e dell'epopea dell'emigrazione oltreoceanica, ma ad un tempo anche quale rousseauiano 'diario di un'anima', cioè quale scavo nelle ragioni più profonde e psicologiche dell'azione umana.

Se la valle (Bavona) è il centro del mondo martiniano, esiste nella sua opera anche una grande attenzione alle radici della cultura ticinese: penso in particolare ai dialoghi con il Giudice Venanzio ne Il fondo del sacco, con posizioni durissime nei confronti della "piccola mafia bardata di ideali illuministici…Una merda". Si può dire che Martini sia stato anche un'analista delle ragioni storiche del Sonderfall ticinese?

Mi è già occorso di dire che a mio avviso Plinio Martini non aveva la stoffa e nemmeno l'ambizione del maître à penser. Puntò a più riprese l'indice contro lo sfruttamento idroelettrico della sua Valle Maggia (con capitali in maggioranza provenienti dalla Svizzera tedesca) e fu uno dei primi a comprendere che le ciclopiche opere idroelettriche avrebbe stravolto il volto del paese e cancellato tradizioni di secolare durata. Si scagliò poi più volte contro la miopia e l'astuzia di determinati uomini politici che, in buona o cattiva fede, lasciarono che al Cantone Ticino venisse sottratta una delle sue risorse economiche più importanti, vale a dire l'acqua. Accanto a ciò, mai sopita fu la sua critica a certi comportamenti religiosi.

Appunto, al centro del Requiem per zia Domenica (pubblicato prima in tedesco che in italiano!) v'è una feroce critica a una tradizione religiosa vissuta dal protagonista come deleteria e quasi assassina; eppure tutto il libro - lei stesso lo ha notato - è costruito su una fitta rete di riferimenti liturgici e religiosi. Come si coniuga in Martini la critica alla tradizione religiosa e il suo utilizzo narrativo?

È stata l'autorevole voce di Giovanni Pozzi a riconoscere a Martini un primato nella storia della letteratura del Novecento italiano, quello di aver saputo rappresentare come nessun altro scrittore la parte che la devozione religiosa ha avuto nella coscienza collettiva del popolo cristiano (E si badi che l'ultimo romanzo di Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, 2004, si fonda in parte sui testi che Martini nel suo romanzo mette più spesso nelle mani di zia Domenica). Quindi, se nessuno può, crocianamente parlando, non dirsi cristiano, siamo debitori a Martini di avere saputo riportare alla luce tutto quanto di crudele e deleterio ma anche di nobile e filantropico la coscienza cristiana ha saputo proporre. Martini conosceva bene quel mondo cristiano per averlo frequentato sotto varie forme e per essere stato a lungo un uomo di fede cristallina; allo stesso tempo ne aveva intuito la portata storica e di conseguenza la portata romanzesca: Requiem per zia Domenica è il mirabile esempio di questa felice intuizione. Contemporaneamente è andato individuando nell'ideologia cattolica due limiti per lui inaccettabili, vale a dire la propagazione di un sentimento di colpa ipertrofico soprattutto rispetto alla sessualità e una troppo scarsa sensibilità verso le ingiustizie nei confronti degli umili, che anzi la religione avrebbe collaborato a mantenere in condizioni sociali soggiogate attraverso la proposta di pratiche spirituali compensatorie e illusorie. Ma anche questa è una domanda che richiederebbe un discorso ben più lungo e articolato.

In un'intervista del 1978 Martini si "rimprovera" (sono parole sue) di essere stato troppo "ottimista" nella sua produzione narrativa: eppure un senso del tragico molto profondo è iscritto in questa produzione. In quale senso è possibile definirla ottimista?

Secondo me e secondo quanto ricordo mi racontasse l'autore - ma anche qui la risposta è difficile -, la vena ottimistica che, in articulo mortis, Martini rivendicava alla sua opera deriva da due componenti senz'altro presenti nei suoi romanzi, sotto la patina tragica. Da una parte l'amore: per il suo paese e per la sua gente; dall'altra il forte senso della comunità e la necessità di orientare la propria vita in senso collettivo, in una nuova società dove stava per trionfare il più spietato individualismo: "Vivere insieme, non importa dove, è l'unica cosa che conti", fa infatti dire a Gori nel Fondo del sacco.

Nella stessa intervista Martini (stanco e malato) dichiara di "essere stato trascurato" dal suo paese: quali furono i rapporti intellettuali, culturali e soprattutto la ricezione delle opere e del lavoro dello scrittore, nel Ticino degli anni cinquanta-settanta?

Io stesso mi sono chinato su questa questione con un articolo a cinque anni dalla morte dello scrittore dal titolo che credo emblematico: Fortuna riflessa di Plinio Martini nella Svizzera italiana ("Cenobio", n. 3, luglio-settembre 1984, pp. 195-213). Dalle mie indagini risultava che se Plinio Martini dopo Il fondo del sacco ha sempre avuto una schiera fedele di lettori, la critica nostrana si è invece interessata dello scrittore solo dopo gli interventi di critici d'oltralpe o di quelli italiani. Ma questo penso sia il destino di ogni scrittore di provincia, tanto più vero per Martini che visse appartato a Cavergno tutta la vita, lontano dalle casse di risonanza che arriva comunque a garantire la frequentazione di qualche salotto letterario sia pure effimero e localmente circoscritto.

Il successo di Martini non è poi però mai venuto meno, né in Ticino (dove Il fondo del sacco ha raggiunto l'anno scorso la ventunesima edizione), né in Francia, dove i due romanzi sono tuttora nella collezione Babel di Actes Sud. Come si spiega questo successo di un autore profondamente legato a un Ticino ormai scomparso (non c'è, al limite, il rischio di una lettura 'romantica' dei temi martiniani)?

Se fino agli inizi degli anni Ottanta questo successo, unico nella storia editoriale del Ticino letterario, poteva forse misurarsi in termini di soddisfacimento di un bisogno nostalgico, luttuoso e romantico per quanto era ormai irrimediabilmente perduto e irrecuperabile, oggi questa spiegazione mi pare essere troppo semplicistica. Per di più se si pensa che si tratta di un successo e di un apprezzamento che negli ultimi anni è andato sorprendentemente in crescendo: del Fondo del sacco, ad esempio, fra il 2000 e il 2003 sono state stampate quattro edizioni, che è un ritmo di stampa mai conosciuto prima da questo romanzo; oppure, se prendiamo Requiem per zia Domenica, la mia recente edizione commentata (Locarno, Dadò, 2003) è andata presto esaurita ed è subito stata stampata una seconda edizione: e sì che si trattava di un romanzo vecchio di quasi trent'anni! A tacere degli apprezzamenti critici, notevole ad esempio la recensione da parte dell'esperto di narrativa del "Sole-24 Ore" (Giovanni Pacchiano, 13 giugno 2004) che definisce il Requiem di Martini il miglior romanzo di uno scrittore italiano degli ultimi trent'anni, assegnandogli l'impegnativo contrassegno di 'capolavoro'. Francamente per ora non so spiegarmi nemmeno io questi fenomeni, di sicuro so che i romanzi di Martini occuperanno sempre una posizione di preminenza almeno nella storia della fruizione della letteratura della Svizzera italiana.

 

Ce qui se perd au fond du sac par Ferenc Rakoczy

Ecrivain de gauche, Plinio Martini est de ceux qui, en publiant, ont tout engagé d'eux-mêmes : leur enfance, leur vision du monde, leur musique intime. Il s'est ainsi créé une forme détournée de mystique qui transparaît dans ses récits et les anime discrètement d'une vertu singulière, en quoi il dépasse la simple chronique sociale et politique. Le fond du sac, livre du souvenir situé à l'opposé de toute littérature de confort, se dessine comme un document sur le dénuement et la misère qui régnaient dans les vallées tessinoises encore jusqu'aux alentours de l'entre-deux guerres. A l'envers de toute idylle alpestre, il n'est guère de roman qui soit moins composé, écrit davantage d'inspiration.
Le fond du sac, c'est avant tout la restitution fidèle d'un trajet de vie. Revenu au pays après un éloignement de dix-sept ans, Gori Valdi, le narrateur, se veut le témoin de la vérité, seule capable de le sauver de l'échec existentiel. Il va son chemin, se heurte, trébuche, s'obstine. Faisant son possible pour mieux comprendre ce qui lui est arrivé, il s'exprime dans un langage rude et dénué d'artifices : répétitions voulues, tournures populaires chargées de mots dialectaux, maladresses de la parole, hésitante et partagée. La bouche obéit mal lorsque le cœur murmure. Le personnage central s'adresse à un proche jamais nommé, un tu qui met le lecteur de plain-pied avec la réalité des faits, leurs causes et leurs répercussions. C'est donc avec violence qu'on est immergé dans le petit village de Cavergno, aux confins du val Maggia, où l'auteur et le narrateur ont tous deux grandi. A cette époque, le Tessin sommeillait depuis quelques siècles dans une pauvreté silencieuse. Pays de pierres, de solitude, de précipices, une peur sans nom et sans fin habite le cœur de ses enfants. On sent, douloureuse, immédiate, la présence de la misère, cette misère qui écrase irrémédiablement toute destinée sous le poids des maladies, de la famine, des sordides accidents de montagne. Toute activité, toute fièvre n'est bonne qu'à ça : survivre. On comprend que l'émigration se dessine alors comme une échappatoire, un mince espoir de salut.
Le pauvre Gori est englué sans merci dans ce mauvais sort ; après tout, son grand-père Venanzio n'avait-il pas déjà fait son balluchon à quatorze ans pour arriver jusqu'en Corse, où il exerça le métier de maçon ? Plinio Martini a construit son récit sur la tension qui se déploie entre la nécessité de partir et la naissance du sentiment amoureux. Par un de ces paradoxes à la fois cruels et chers à l'auteur, la tentative de Gori pour échapper au désespoir par l'exil sera à l'origine de la disparition de Madeleine, la fiancée, l'unique amour, l'étoile suspendue à son ciel de chevrier. C'est par orgueil qu'il a voulu s'expatrier en Californie avec son frère Antonio, quitter la communauté, sortir du rang. Il pensait seul en payer le prix. Il lui faut Madeleine pour vivre, mais Madeleine est bientôt, comme le reste, anéantie. Et contre toute logique, c'est sa loyauté, son statut d'orpheline et son inscription dans une nouvelle filiation (elle contracte la pneumonie en rendant visite à sa future belle-mère) qui seront cause de sa mort. Ainsi fatalité intérieure et extérieure se conjuguent pour mieux briser les êtres au plus intime de leur ressort. Nul salut, nul apaisement. Pourquoi ça ? C'est la question que le narrateur se pose tout au long du récit. Le visage humain peut disparaître, tomber en poudre. Même les liens de l'affection semblent incapables de le protéger de son malheur, lorsqu'ils ne précipitent pas sa perte. Il y a là une manifestation d'un drame plus ample, pour ainsi dire cosmique, par lequel Madeleine devient victime expiatoire et signe de l'impuissance de la tribu face à une nature sauvage qui redemande périodiquement des innocents à dévorer.
Il n'est pas facile de résumer en quelques lignes les vibrations qui traversent ce roman. Presque tous les héros de Martini restent prisonniers du temps qui passe ou du temps passé. De là vient une part de leur grandeur, mais pas la seule. A l'instar de Don Giuseppe, prédicateur d'une religion suffocante, dont le plus grand souci est de sauver les âmes qui lui ont été confiées (s'il ne se donne entier, il ne donne rien), Gori trouve sa rédemption dans le feu de la parole, cette flamme qui, soudain, éclaire tout, comme une lampe de ses rayons horizontaux. A la tradition et à l'ordre de l'Eglise, il oppose le langage de celui qui soupire après les siens. Au cœur de l'attention que nous portons aux êtres se tient l'absence. Et c'est en prenant la mesure de cette absence que le narrateur parvient, par la conscience de l'inanité de toute chose, à réconcilier le dire et l'être, l'universel et le singulier, et à ainsi faire entrer le grand monde dans le petit monde de son canton, avec ses expériences, ses tribulations, la fascination que nécessairement il exerce. Ce qu'il cherchait était là, tout près, à portée de main. L'Amérique de Gori, où il s'est enrichi pourtant, n'a pas rempli ses promesses. Il ne revient pas les mains vides, mais ce qu'il a involontairement perdu, le coeur, un certain sentiment lié à sa jeunesse, ne se retrouvera plus. Comment accepter de cheminer sans espoir, coupable et condamné ? L'impossible est consubstantiel au réel. C'est toute la thématique du devenir adulte, du deuil de l'enfance et de la douleur que cela comporte. Restent la lutte et cette étonnante lucidité qui vient de l'auteur, sans doute, tout en relevant profondément du personnage : une forme de sollicitude dans l'affliction, une voix qui reste et s'imprime, unique, dans la mémoire des hommes.

Ferenc Rakoczy